Nichi e quella fragile
narrazione di fronte a una sonora sconfitta
Va bene che si era abituato a vincere le primarie contro i dalemiani in
Puglia, va bene che di sé diceva “ho sempre perso nei sondaggi ma non nelle
urne”, ma quando uno ha perso – e Nichi Vendola, a questo giro, ha perso –
farebbe bene a dirlo, tantopiù che persino in Puglia non è arrivato primo (37,3
per cento contro il 39,3 di Pier Luigi Bersani). Invece no. Invece Vendola, tra
domenica e lunedì, a ballottaggio Bersani-Renzi ormai sicuro, ha dato prima di
tutto agli altri la colpa della sua sconfitta: ho combattuto a mani nude contro
due giganti, ha detto, sono vittima dei mass media, rei di “manipolazione
maliziosa, voluta, programmata e scientifica”, con il Tg1 eletto a bestia nera
e definito “piccolo esempio di giornalismo ignobile” che fa “vergognosa
informazione”, trattando le primarie “come fossero il congresso del Pd” (e pazienza
se lui, Vendola, ha sempre giocato con i mass media che rilanciavano le sue
poesie e le sue cosiddette “narrazioni”). Non si è neanche lontanamente
autocriticato, Vendola, quando è comparso a tarda sera a commentare il voto,
scortato da due soldati muti (i suoi principali collaboratori): neanche una
parola pensierosa sul fallimento dell’affabulatore sempre fuori dal Partito
democratico ma non dalle alleanze, e sempre attento a non scendere dal treno.
E’ pauperista e scandalizzato, Vendola (gli altri hanno “i jet privati”,
diceva), ma non così tanto da non restare in coalizione, seppure brandendo a
giorni alterni il suo “vade retro” a Pier Ferdinando Casini. Non ha detto che
un giorno andrà nel Pd, come qualcuno gli consigliava, non ha detto che andrà da
solo, ma non ha smesso di dire “voglio questo e voglio quello”, lanciando
diktat ai vincitori cui intanto faceva “vivi complimenti” (prendendo però la
rincorsa per l’attacco risentito): “I miei voti dovrai guadagnarteli”, ha detto
a Bersani in una “lettera virtuale”, prova a “convincere i miei elettori”,
voglio “profumo di sinistra” sennò “liberi tutti”, non farò “trattative”, “farò
una conferenza stampa” chiarendo “l’orientamento” (il tutto mentre Bersani
parlava di “convergenze” con lui). Di sicuro “non combatto per te”, ha detto
poi a Renzi (ribadendo l’ovvio).
Si era dato il venti per cento come confine del successo, Vendola, ma quel suo quindici
per cento – un flop per chi, come lui, assicurava la “sorpresa” nei gazebo e
cantava la palingenesi via primarie della sinistra “sparpagliata e incazzata” –
non è stato di ostacolo all’ennesima auto-narrazione (di una realtà sottosopra,
stavolta): le regioni rosse che si “incendiano” per Renzi e Bersani solo perché
tutto è stato presentato come “polarizzazione penalizzante”, e non perché a
molti elettori del centrosinistra, magari, non piacciono i paletti vendoliani
alle politiche di centro o, al contrario, non piace il Vendola “governativo”
che non salta un giro, per dirla con Fausto Bertinotti (critico, da sinistra,
verso la linea di Sel). Ma niente: Vendola, dopo la sconfitta, lungi dal fare
un passo indietro, ha detto “ascolteremo con puntigliosa attenzione”, alzando
il dito come il professore a scuola, giusto per ricordare a Bersani che fa
differenza non dire espressamente “votiamo per te”. E però la realtà lo assale:
consensi che se ne vanno in direzione Fiom, sindaci “arancioni” in concorrenza
(nonostante l’endorsement di Giuliano Pisapia, e con Luigi De Magistris che
dice “da Vendola mi aspettavo di più”) e persino una parte dei voti “anti
status quo” che si dirige su Matteo Renzi (invece che su di lui).
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il foglio 27 novembre 2012
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