ERANO SOPRAVVISSUTI ALLA GUERRA
di
Antonio Scurati
Erano nati con la Guerra mondiale e sono
morti a causa della pandemia globale. Erano sopravvissuti alle bombe, alla
fame, alle deportazioni e sono stati finiti da un’infezione polmonare. Si erano
affacciati alla vita sotto l’oppressione di Hitler e di Mussolini e l' hanno
lasciata sotto il segno di un acronimo impersonale, il Sars-CoV-2. Furono
battezzati con il fuoco di un mondo in fiamme e moriranno senza l’estrema
unzione in una desolata, asettica corsia d’ospedale.
Non esistono
destini migliori o peggiori di altri, esistono solo destini. Quello della
generazione falciata in queste settimane dal virus merita, esige il nostro
compianto, il nostro tributo di dolore collettivo. I parenti delle vittime non
devono esser lasciati soli a piangere i loro morti, perché essi sono i nostri
morti.
Essi sono i compagni di una vita, essi sono i padri della nostra
gioventù, essi sono i nonni dell’infanzia dei nostri figli. Tra le decine di
migliaia, i più avevano 80 anni. Furono i bimbi del ’40, figli dell’apocalisse,
nati nell’ora «segnata dal destino», furono i ragazzi della speranza, gli
uomini della ricostruzione, i vecchi della delusione.
«Se ne vanno
— si legge su di un appello che circola in rete — se ne vanno mesti,
silenziosi, come magari è stata umile e silenziosa la loro vita, fatta di
lavoro, di sacrifici. Se ne va una generazione, quella che ha visto la guerra,
ne ha sentito l’odore e le privazioni... Se ne vanno mani indurite dai calli,
visi segnati da rughe profonde, mani che hanno spostato macerie, impastato
cemento, piegato il ferro, in canottiera e cappello di carta di giornale. Se ne
vanno quelli della Lambretta, della Fiat 500, dei primi frigoriferi, della
televisione in bianco e nero. Ci lasciano avvolti in un lenzuolo, come Cristo
nel sudario, quelli del boom economico che con il sudore hanno ricostruito
questa nostra nazione, regalandoci quel benessere di cui abbiamo impunemente
approfittato. Se ne va l’esperienza, la comprensione, la pazienza, la
resilienza, il rispetto, pregi oramai dimenticati».
Il destino
molto ha dato agli uomini e alle donne di questa formidabile e sciagurata
generazione, e molto ha tolto. Appartennero alla leva più ariosa del secolo,
scalarono l’esistenza con il fiato immenso di un ciclista in fuga ma hanno
esalato il loro ultimo respiro spolmonati. Nacquero spesso in stanze malsane,
mal areate, poco illuminate, terranei, case di ringhiera, poveri cascinali, ma
sempre affollate, vocianti, dense di vita e, poi, però, sono morti da soli,
protetti, isolati e, al tempo stesso, abbandonati da un necessario e impietoso protocollo
sanitario.
È terribile
doversene andare senza un volto amato da poter contemplare. Non si può
immaginare morte peggiore. Eppure, questo è stato il loro destino in una
primavera senza gioia. Ci sono parole per piangere i defunti e ci sono parole
per consolare i viventi. Le seconde non sono possibili se non sono state
recitate le prime.
Per questo
motivo, su coloro che se ne vanno dobbiamo invocare con forza, con tutta la
pietà di cui siamo capaci, il sinistro splendore di questa falsa primavera. E su
di noi, che restiamo, la loro benedizione.
Nessuna «fase
2» giungerà davvero se prima non avremo scavato la terra, deposto le bare,
protetto il tumulo con fiori da bordura. Ora è il tempo di piangere i nostri
morti. Di promettere a noi stessi che i bambini del ’40 non saranno
dimenticati.
Che la terra vi sia lieve.
dal Corriere della sera
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