Da un articolo di Antonio Socci (2009)
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La Chiesa è, ad immagine di Maria,
“refugium peccatorum”.
E’ il paradosso che si riflette
poeticamente nei più grandi scrittori cristiani. Non a caso “la creazione più
alta in cui si incarna, nei romanzi di Dostoevskij, la santità è
paradossalmente una prostituta”, nota don Barsotti. Cioè Sonja di “Delitto e
castigo”. Non il santo monaco Zosima, ma Sonja.
Il fariseo pretende sempre di accusare di
incoerenza i peccatori che si affidano a Dio. Ma non si crede in Gesù Salvatore
perché noi siamo perfetti, si crede perché lui è perfetto. Tanto più si ha il
diritto di gettarsi fra le braccia del Salvatore quanto più noi siamo dei
disgraziati.
Un personaggio della “Sposa bella” di
Bruce Marshall, uno che mostra di apprezzare la bellezza femminile e si dice
cattolico, risponde al moralista che lo contesta: “E’ proprio qui che ti
sbagli… Quasi tutti pensano che i loro peccati li abbiano privati del diritto
di credere. Ma questo equivarrebbe a dire che la rivelazione cristiana è vera
in maniera inversamente proporzionale ai propri vizi.
Nel Medioevo, la gente era cristiana anche
nel peccato: il timore di essere accusata di incoerenza non la faceva cadere
nell’errore di credere nella propria virtù”.
Credere nella propria virtù, pronti a
lapidare il peccatore, è quanto c’è di più anticristiano, mentre le ferite del
peccato facilmente diventano le feritoie attraverso cui Dio, che non si
rassegna a perdere nessuno dei suoi figli, ci raggiunge con il suo abbraccio.
Così Charles Péguy, un grande convertito
del Novecento, memore delle pagine evangeliche sul pubblicano e il fariseo (e
delle polemiche di Paolo e Agostino sulla Legge), scrive queste pagine
provocatorie: “Le persone morali non si lasciano bagnare dalla grazia. Ciò che
si chiama la morale è una crosta che rende l’uomo impermeabile alla grazia. Si
spiega così il fatto che la grazia operi sui più grandi criminali e risollevi i
più miserabili peccatori”.
Infatti sul Calvario si convertì il
“ladrone” (un brigante), mentre scribi e farisei, osservanti di tutti i 600
precetti della Legge, additavano Gesù come un maledetto da Dio.
“E’ per questo” prosegue Péguy “che niente
è più contrario a ciò che si chiama … la religione, come ciò che si chiama la
morale. E niente è così idiota che confondere così insieme la morale e la
religione”.
Attenzione, Péguy – col suo linguaggio
poetico – non sta facendo l’elogio dell’immoralità. Ma condanna l’ideologia
della morale, cioè il giacobinismo, il moralismo farisaico e la pretesa di
salvarsi da sé. Non è che Gesù fosse indifferente al peccato che anzi gli
faceva una tristezza infinita. Ne aveva orrore, ma si struggeva di compassione
per i peccatori. Era venuto per loro. Letteralmente.
Nel Vangelo Gesù mostra una pietà infinita
per i più miserabili peccatori, li perdona sempre, li risolleva sempre (li
considera i più poveri), mentre sfodera parole di fuoco solo contro i “giusti”,
i rigoristi, i moralisti e gli “onesti” del suo tempo.
I peccatori umiliati (resi umili dalla
propria scandalosa debolezza) si salvano, dice una sua parabola, mentre i
“giusti”, insuperbiti dalla loro presunta rettitudine, no.
Scrive don Divo Barsotti: “è il tuo
peccato che lo chiama; nulla più efficacemente della tua miseria lo attrae,
purché tu gliela doni… In un istante i tuoi peccati sono distrutti, non sono
più. Egli solo è”.
Per Gesù l’unico peccato che non si può
perdonare è quello contro lo Spirito Santo, cioè quello dell’ideologia o
dell’opposizione lucida e teorizzata contro Dio. Il peccato del pensiero oggi
dominante che si erge deliberatamente contro Dio. Com’è stato, nel recente
passato, il comunismo. Perciò Pio XI nella Divini Redemptoris (citata dal
Concilio) proclamava: “Il comunismo è intrinsecamente perverso e non si può
ammettere in nessun campo la collaborazione con esso”.
Gilbert K. Chesterton in una pagina
memorabile fa dire a un suo personaggio (evidente simbolo della Chiesa): “Noi
sosteniamo che i delinquenti più pericolosi sono proprio quelli dotati di
cultura, che il furfante più temibile è il filosofo moderno assolutamente privo
di principi. Al suo confronto, bigami e tagliaborse sono esseri essenzialmente
morali e il mio cuore palpita per loro. Essi non rinnegano il vero ideale
dell’uomo, lo cercano in modo sbagliato, ecco tutto”.
Invece i “filosofi”, gli ideologi
pretendono di teorizzare e trasformare il Male in Bene e viceversa.
Da duemila anni, la Chiesa è – per volontà
del suo Maestro e Signore – la casa del peccatori, l’abbraccio del loro Padre
misericordioso. Tutto nella Chiesa è fatto per i peccatori. Le grandi
Cattedrali e il sublime gregoriano, le immense tele di Caravaggio e l’Agnus Dei
di Mozart, la grandiosa teologia di Tommaso d’Aquino e il Giudizio universale
di Michelangelo.
Quello che c’è di più sacro sulla terra,
cioè i sacramenti, sono fatti per i peccatori. Sono per loro. Infatti sono i
gesti fisici (legati sempre a segni fisici) della presenza di Gesù che abbraccia,
risolleva, cura, medica, consola, rafforza, chiama. Il Concilio ripete che la
Chiesa è il primo, grande sacramento della salvezza. La Chiesa è la casa dei
peccatori perché gli esseri umani sono i figli del Re. Anche quando sono in
catene (nel peccato) sono i figli del Re, possono invocarlo e vengono da lui
soccorsi. E gli angeli sono a loro servizio.
Chi invece contesta la regalità di Dio,
quello non è figlio. Non può essere perdonato, perché non vuole l’abbraccio del
Padre, ma lo odia e ne combatte lucidamente la presenza, le opere, la volontà,
la bontà.
Invece – come spiega Agostino nelle
“Confessioni” – nella debolezza del peccare talvolta si manifesta proprio la
sete che ogni creatura ha di Dio. Spesso il peccato nasce dalla solitudine,
dalla paura della morte, dall’incertezza di esistere che induce ad aggrapparsi
alle creature, alla loro effimera bellezza creata. E così inconsapevolmente
l’uomo mostra quanto ha sete e fame di Dio, la fonte della Bellezza, la vera
Felicità, la vera Vita.
Un altro grande convertito del nostro
tempo, Olivier Clément, osservando la generazione della “rivoluzione sessuale”,
negli anni Settanta, scriveva: “Nel peccato, e soprattutto nel peccato in
quanto ricerca dell’innocenza mediante l’inferno, si delinea tutto il paradosso
dell’uomo… Dovremmo essere in grado di discernervi la sete dell’infinito, la
nostalgia della libertà e della comunione, (…) la sofferenza di colui che cerca
l’assoluto nelle realtà della terra, quelle realtà che non possono salvare, ma
che attendono di essere salvate”.
Clément parla di uomini in cerca di “un’eterna adolescenza” e conclude:
“Nella grande e spesso folle prova della libertà dobbiamo distinguere la
persona nel suo trasalimento ancora cieco e nel suo destino insaziabile, con la
certezza che nella parte più profonda dell’inferno Cristo – per sempre
vincitore di esso – attende colui che l’Apocalisse chiama ‘l’uomo di desiderio’
”. Perché Cristo è il solo medico della nostra malattia mortale.