Un pezzo di specchio così da potersi guardare, come nella canzone di Lucio Dalla. Tutti avrebbero dovuto avere un pezzetto di specchio, ieri pomeriggio, così da poter guardare il proprio stupore. I sorrisi che restano disegnati sulla faccia, mentre gli occhi dicono no, forse mi sono sbagliato, ho letto male. Tutte le certezze, le prevedibilità, il buon senso chiamato a raccolta negli ultimi mesi si è sciolto dentro i numeri che uscivano a poco a poco dalle urne, mandando all’aria i sondaggi e generando un caos beffardo, che ha cominciato a ballare il twist sugli editoriali già scritti e i festeggiamenti immaginati, le nuove ere e i discorsi del re.
Soprattutto i numeri e l’impallidire delle risposte pronte ballavano su quell’addio-per-sempre che è sembrato fino all’ora di pranzo, la certezza e la ricompensa dopo tanto soffrire: niente più paese reale per Silvio Berlusconi, niente più voglia di votare uno che dice di restituire l’Imu di tasca sua (convinto di non vincere).
E invece, come una pioggia di meteoriti, e come tutte le volte, solo un po’ più anziano, un po’ più folle, ecco Berlusconi ovunque. Testa a testa. A trasformare il tutto in niente e il niente in tutto, insieme a Beppe Grillo, a fare suonare le campanelle dell’impazzimento: i commentatori in tivù sbiancavano a turno, a qualcuno scappava un riso vagamente isterico, facce stralunate, inviti alla calma ma caccia coi forconi ai sondaggisti (forse la gente intervistata al telefono si vergognava di dire voto Berlusconi, voto Grillo e lecco anche la matita? forse, dopo avere fatto due volte il giro della scuola in cui si vota, qualcuno, ma non solo qualcuno, proprio tanta gente è entrata nella cabina e ha detto: faccio la controrivoluzione; forse ai seggi alla domanda: per chi hai votato, molti rispondono: fatti gli affari tuoi; forse i sondaggisti intervistano sempre le stesse dieci persone di Roma centro). Ingovernabilità, governabilità? Che cosa diranno all’estero? Angela Merkel? Il New York Times? La commedia dell’arte? Che importa.
Quello che si voleva dire con questo voto diminuito e rabbioso, incazzato ma allegro, è che c’è ancora bisogno di un sogno, di un cappello a sonagli, di una rockstar. Di una sbandata, di una promessa. Di non essere un paese normale. Di ribellarsi ai tecnici, grigi e cupi e sacrificali. E ai giaguari da smacchiare, solo Nanni Moretti ha avuto il coraggio di dire che non era proprio il caso, non era nemmeno buffo, era un disastro.
Le facce stupite, gli svenimenti interiori, il restare lì, compunti ma con la bocca semiaperta a chiedersi: che sta succedendo?, e poi dire: voglio godermi questa sconfitta e capire molto dopo che era una vittoria (il più saggio Enrico Letta, che a un certo punto ha detto: “Meglio mandare in onda Stanlio e Ollio”), non volerci credere, prendersela prima con i sondaggi, poi con le proiezioni, poi con i risultati parziali, poi con la lentezza degli scrutinamenti e infine con se stessi, per non aver capito: che i meteoriti arrivano, soprattutto quando gli esperti dicono che non c’è nessun pericolo e non si avvicineranno mai abbastanza alla terra. E che Berlusconi non incanta più, come si fa a credergli ancora, dopo tutti gli errori e le follie. Quello che le facce sbiancate e incredule forse adesso dicono è che gli errori e le follie sono considerate meno gravi della mancanza di un’avventura memorabile.
dal Foglio di oggi
Annalena Benini
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