Il teologo svizzero Hans Küng, nella sua lunga vicenda umana e
intellettuale, non ha mai dismesso il suo “abito di scena”, che è quello del
“cattivo maestro” in polemica con il magistero autentico della Chiesa
cattolica. I suoi temi prediletti sono quelli che ieri venivano riproposti
dall’arcivescovo di Milano, cardinale Carlo Maria Martini, e oggi vengono
volgarizzati dalla letteratura pseudo-profetica di Enzo Bianchi.
W. Turner, Snow storm 1842 |
Sono la riforma della Chiesa, l’abolizione del primato pontificio, una
“nuova” morale indirizzata ad attuare la “rivoluzione sessuale” sessantottina —
di stampo freudiano-marxista —, la concessione del sacerdozio alle donne,
l’eutanasia. Ultimamente Küng, ammalato di Parkinson, è giunto ad
annunciare l’intenzione di ricorrere egli stesso al suicidio assistito, a
imitazione del cardinal Martini.
Küng rappresenta l’inventore degli schemi concettuali che reggono le tante
proposte rivoluzionarie avanzate in questi mesi da teologi ed esponenti
dell’episcopato mondiale in occasione del Sinodo straordinario sulla famiglia
indetto da Papa Francesco. Tale ideologia pervade oggi, come sottofondo ben
identificabile a un’attenta analisi concettuale, la maggior parte delle
proposte, dottrinali o pastorali, dei teologi cattolici più in vista, a
cominciare da Karl Rahner, che lo stesso Hans Küng considera un maestro e un
modello.
Molti teologi cattolici vicini a Kung, alcuni dei quali sono diventati
vescovi, esercitarono una ben documentata influenza sui lavori del Vaticano II,
per poi assumere il ruolo (arbitrario) degli unici interpreti autorevoli dello "Spirito del Concilio" nel successivo cinquantennio, fino ad arrivare, oggi, alla preparazione
e allo svolgimento dei lavori del duplice Sinodo sulle possibili modifiche
della prassi pastorale in relazione ai problemi delle famiglie.
Figura di spicco di questa corrente
teologica è il cardinale Walter Kasper, sostenuto da gran parte dell’episcopato
tedesco e in Italia da altri teologi divenuti cardinali come Dionigi Tettamanzi
e Gianfranco Ravasi. La sua tesi più caratteristica, in linea con le proposte
teologico-morali di Hans Küng, è la necessità di accelerare il processo di
riforma della Chiesa con un più deciso adattamento alla coscienza morale degli
«uomini del nostro tempo» e l’allineamento con la prassi delle comunità
ecclesiali protestanti e ortodosse. Nel suoi discorsi il Leitmotiv è la necessità di de-dogmatizzare la Chiesa
cattolica, cominciando da una nuova pastorale della famiglia separata e
indipendente dalla dottrina sui sacramenti, provvisoriamente non abolita ma
tenuta in disparte .
A questo proposito il cardinale Müller, Prefetto della Congregazione per la
Dottrina della Fede, ha detto con grande precisione teologica: «Un semplice
“adattamento” della realtà del matrimonio alle attese del mondo non dà alcun
frutto, anzi risulta controproducente: la Chiesa non può rispondere alle sfide
del mondo attuale con un adattamento pragmatico”.
Il pragmatismo è infatti la versione
“performativa” (ossia, operativa) del relativismo, sotto la cui dittatura
viviamo ufficialmente dai tempi di papa Benedetto
XVI, che la denunciò vigorosamente. L’«adattamento pragmatico» di cui parla
Müller consiste nell’adattare la Chiesa alle (presunte) nuove istanze dei
fedeli, e anche degli infedeli, ai quali si vuol apparire dialoganti sempre e a
ogni costo.
Ciò implica la decisione di
mettere in soffitta il dogma, appellandosi alle sole (presunte) esigenze
di azione pastorale nella liturgia, nella catechesi, nell’amministrazione dei
sacramenti. Si dice infatti e si ripete che «la dottrina non viene toccata ma
si affrontano le sfide della società di oggi». In altri termini, la dottrina da
una parte e la pastorale dall’altra. Qualcosa come “i commenti separati dalle
notizie”, come dicevano i settimanali politici di un tempo. Ma frasi di questo genere non hanno di per
sé alcun senso.
In effetti, la pastorale è un
insieme di decisioni, di iniziative, di scelte,
insomma di azioni, i cui soggetti sono persone consapevoli e (si spera)
responsabili. Ora, qualunque azione umana, sia di un singolo come privato sia
di un singolo come rappresentante di un’istituzione, è regolata intrinsecamente
– a rigor di logica, e dalla logica non si scappa – da un’intenzione, da un criterio, quindi in definitiva da dei principi,
dunque da una dottrina. Di conseguenza, quando certi teologi e anche certi
ecclesiastici con autorità episcopale dicono che cercano soluzioni “pastorali”
diverse da quelle che la Chiesa ha adottato finora, e aggiungono che però non
intendono cambiare la dottrina, dicono
una cosa assolutamente illogica, una cosa che essi vorrebbero fosse presa
per buona (ossia, come un’ipotesi plausibile) da parte del pubblico al quale si
rivolgono, ma che loro per primi sanno che non ha alcun senso. In realtà quelle frasi sono mera retorica,
una cortina fumogena che serva a nascondere i veri obiettivi, i fini reali dei
cambiamenti che si vogliono attuare.
Obiettivi che
costituiscono comunque una minaccia grave per la fede cattolica: l’intenzione di lasciare la dottrina della
Chiesa così com’è, senza introdurre cambiamenti formali ma senza nemmeno
applicarla alla vita della Chiesa, il che significa cominciare (o continuare)
ad agire nella prassi pastorale secondo altri principi e altri criteri: altri
principi e altri criteri, che allora sarebbero non-dottrinali, estranei cioè al
dogma, quindi indipendenti da quello che Dio ha rivelato come verità salvifiche
e che ogni fedele è tenuto a credere nel proprio cuore, a professare
esteriormente e a vivere personalmente. Quindi non si tratterebbe di criteri
teologici ma di criteri umani, sostanzialmente politici, come si deduce dal
linguaggio usato nei loro messaggi e dai mezzi adoperati per diffonderlo
nell’opinione pubblica.
Da alcuni articoli di Antonio Livi
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