21 ottobre 2014, in
occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Urbaniana di
Roma, l’arcivescovo Georg Gänswein, prefetto della Casa Pontificia, ha dato
lettura di un messaggio scritto dal Papa emerito. Di seguito il testo del
messaggio che è stato pubblicato dal portale kath.net
MESSAGGIO DEL PAPA EMERITO BENEDETTO XVI
PER L’INTITOLAZIONE DELL’AULA MAGNA
PONTIFICIA UNIVERSITA’ URBANIANA – 21 OTTOBRE 2014
Vorrei in primo luogo esprimere il
mio più cordiale ringraziamento al Rettore Magnifico e alle autorità
accademiche della Pontificia Università Urbaniana, agli Ufficiali Maggiori e ai
Rappresentanti degli Studenti, per la loro proposta di intitolare al mio nome
l’Aula Magna ristrutturata. Vorrei ringraziare in modo del tutto particolare il
Gran Cancelliere dell’Università, il Cardinale Fernando Filoni, per avere
accolto questa iniziativa. È motivo di grande gioia per me poter essere così
sempre presente al lavoro della Pontificia Università Urbaniana.
Nel corso delle diverse visite che
ho potuto fare come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede,
sono rimasto sempre colpito dall’atmosfera di universalità che si respira in
questa Università, nella quale giovani provenienti praticamente da tutti i
Paesi della Terra si preparano per il servizio al Vangelo nel mondo di oggi.
Anche oggi, vedo interiormente di fronte a me, in quest’aula, una comunità
formata da tanti giovani, che ci fanno percepire in modo vivo la stupenda
realtà della Chiesa cattolica.
“Cattolica”: questa definizione
della Chiesa, che appartiene alla professione di fede sin dai tempi più
antichi, porta in sé qualcosa della Pentecoste. Ci ricorda che la Chiesa di
Gesù Cristo non ha mai riguardato un solo popolo o una sola cultura, ma che sin
dall’inizio era destinata all’umanità. Le ultime parole che Gesù disse ai suoi
discepoli furono: “Fate miei discepoli tutti i popoli” (Mt 28,19). E al momento
della Pentecoste gli Apostoli parlarono in tutte le lingue, potendo così
manifestare, per la forza dello Spirito Santo, tutta l’ampiezza della loro
fede.
Da allora la Chiesa è realmente
cresciuta in tutti i Continenti. La vostra presenza, care studentesse e cari
studenti, rispecchia il volto universale della Chiesa. Il profeta Zaccaria
aveva annunciato un regno messianico che sarebbe andato da mare a mare e
sarebbe stato un regno di pace (Zc 9,9s.). E infatti, dovunque viene celebrata
l’Eucaristia e gli uomini, a partire dal Signore, diventano tra loro un solo
corpo, è presente qualcosa di quella pace che Gesù Cristo aveva promesso di
dare ai suoi discepoli. Voi, cari amici, siate cooperatori di questa pace che,
in un mondo dilaniato e violento, diventa sempre più urgente edificare e
custodire. Per questo è così importante il lavoro della vostra Università,
nella quale volete imparare a conoscere più da vicino Gesù Cristo per poter
diventare suoi testimoni.
Il Signore Risorto incaricò i suoi
Apostoli, e tramite loro i discepoli di tutti i tempi, di portare la sua parola
sino ai confini della terra e di fare suoi discepoli gli uomini. Il Concilio
Vaticano II, riprendendo, nel decreto “Ad gentes”, una tradizione costante, ha
messo in luce le profonde ragioni di questo compito missionario e lo ha così
assegnato con forza rinnovata alla Chiesa di oggi.
Ma vale davvero ancora? – si chiedono in molti, oggi, dentro e fuori la
Chiesa – davvero la missione è ancora attuale? Non sarebbe più appropriato
incontrarsi nel dialogo tra le religioni e servire insieme la causa della pace
nel mondo? La contro-domanda è: il dialogo può sostituire la missione? Oggi in
molti, in effetti, sono dell’idea che le religioni dovrebbero rispettarsi a
vicenda e, nel dialogo tra loro, divenire una comune forza di pace. In questo modo
di pensare, il più delle volte si dà per presupposto che le diverse religioni
siano varianti di un’unica e medesima realtà; che “religione” sia il genere
comune, che assume forme differenti a secondo delle differenti culture, ma
esprime comunque una medesima realtà. La questione della verità, quella che in
origine mosse i cristiani più di tutto il resto, qui viene messa tra parentesi.
Si presuppone che l’autentica verità su Dio, in ultima analisi, sia
irraggiungibile e che tutt’al più si possa rendere presente ciò che è
ineffabile solo con una varietà di simboli. Questa rinuncia alla verità sembra
realistica e utile alla pace fra le religioni nel mondo.
E tuttavia essa è letale per la fede. Infatti, la fede perde il suo
carattere vincolante e la sua serietà, se tutto si riduce a simboli in fondo
interscambiabili, capaci di rimandare solo da lontano all’inaccessibile mistero
del divino.
Cari amici, vedete che la
questione della missione ci pone non solo di fronte alle domande fondamentali
della fede ma anche di fronte a quella di cosa sia l’uomo. Nell’ambito di un
breve indirizzo di saluto, evidentemente non posso tentare di analizzare in
modo esaustivo questa problematica che oggi riguarda profondamente tutti noi.
Vorrei, comunque, almeno accennare alla direzione che dovrebbe imboccare il
nostro pensiero. Lo faccio muovendo da due diversi punti di partenza.
I
1. L’opinione comune è che le
religioni stiano per così dire una accanto all’altra, come i Continenti e i
singoli Paesi sulla carta geografica. Tuttavia questo non è esatto. Le
religioni sono in movimento a livello storico, così come sono in movimento i
popoli e le culture. Esistono religioni in attesa. Le religioni tribali sono di
questo tipo: hanno il loro momento storico e tuttavia sono in attesa di un
incontro più grande che le porti alla pienezza.
Noi, come cristiani, siamo
convinti che, nel silenzio, esse attendano l’incontro con Gesù Cristo, la luce
che viene da lui, che sola può condurle completamente alla loro verità. E
Cristo attende loro. L’incontro con lui non è l’irruzione di un estraneo che
distrugge la loro propria cultura e la loro propria storia. È, invece,
l’ingresso in qualcosa di più grande, verso cui esse sono in cammino. Perciò
quest’incontro è sempre, a un tempo, purificazione e maturazione. Peraltro,
l’incontro è sempre reciproco. Cristo attende la loro storia, la loro saggezza,
la loro visione delle cose.
Oggi vediamo sempre più
nitidamente anche un altro aspetto: mentre nei Paesi della sua grande storia il
cristianesimo per tanti versi è divenuto stanco e alcuni rami del grande albero
cresciuto dal granello di senape del Vangelo sono divenuti secchi e cadono a
terra, dall’incontro con Cristo delle religioni in attesa scaturisce nuova
vita. Dove prima c’era solo stanchezza, si manifestano e portano gioia nuove
dimensioni della fede.
2. La religione in sé non è un
fenomeno unitario. In essa vanno sempre distinte più dimensioni. Da un lato c’è
la grandezza del protendersi, al di là del mondo, verso l’eterno Dio. Ma,
dall’altro, si trovano in essa elementi scaturiti dalla storia degli uomini e
dalla loro pratica della religione. In cui possono rivenirsi senz’altro cose
belle e nobili, ma anche basse e distruttive, laddove l’egoismo dell’uomo si è
impossessato della religione e, invece che in un’apertura, l’ha trasformata in
una chiusura nel proprio spazio.
Per questo, la religione non è mai
semplicemente un fenomeno solo positivo o solo negativo: in essa l’uno e
l’altro aspetto sono mescolati. Ai suoi inizi, la missione cristiana percepì in
modo molto forte soprattutto gli elementi negativi delle religioni pagane nelle
quali s’imbattè. Per questa ragione, l’annuncio cristiano fu in un primo
momento estremamente critico della religione. Solo superando le loro tradizioni
che in parte considerava pure demoniache, la fede poté sviluppare la sua forza
rinnovatrice. Sulla base di elementi di questo genere, il teologo evangelico
Karl Barth mise in contrapposizione religione e fede, giudicando la prima in
modo assolutamente negativo quale comportamento arbitrario dell’uomo che tenta,
a partire da se stesso, di afferrare Dio. Dietrich Bonhoeffer ha ripreso questa
impostazione pronunciandosi a favore di un cristianesimo “senza religione”. Si
tratta senza dubbio di una visione unilaterale che non può essere accettata. E
tuttavia è corretto affermare che ogni religione, per rimanere nel giusto, al
tempo stesso deve anche essere sempre critica della religione. Chiaramente
questo vale, sin dalle sue origini e in base alla sua natura, per la fede
cristiana, che, da un lato, guarda con grande rispetto alla profonda attesa e
alla profonda ricchezza delle religioni, ma, dall’altro, vede in modo critico
anche ciò che è negativo. Va da sé che la fede cristiana deve sempre di nuovo
sviluppare tale forza critica anche rispetto alla propria storia religiosa.
Per noi cristiani Gesù Cristo è il
Logos di Dio, la luce che ci aiuta a distinguere tra la natura della religione
e la sua distorsione.
3. Nel nostro tempo diviene sempre più forte la voce di coloro che
vogliono convincerci che la religione come tale è superata. Solo la ragione
critica dovrebbe orientare l’agire dell’uomo. Dietro simili concezioni sta la
convinzione che con il pensiero positivistico la ragione in tutta la sua
purezza abbia definitivamente acquisito il dominio. In realtà, anche questo
modo di pensare e di vivere è storicamente condizionato e legato a determinate
culture storiche. Considerarlo come il solo valido sminuirebbe l’uomo,
sottraendogli dimensioni essenziali della sua esistenza. L’uomo diventa più
piccolo, non più grande, quando non c’è più spazio per un ethos che, in base
alla sua autentica natura, rinvia oltre il pragmatismo, quando non c’è più
spazio per lo sguardo rivolto a Dio. Il luogo proprio della ragione positivista
è nei grandi campi d’azione della tecnica e dell’economia, e tuttavia essa non
esaurisce tutto l’umano. Così, spetta a noi che crediamo spalancare sempre di
nuovo le porte che, oltre la mera tecnica e il puro pragmatismo, conducono a
tutta la grandezza della nostra esistenza, all’incontro con il Dio vivente.
II
1. Queste riflessioni, forse un
po’ difficili, dovrebbero mostrare che anche oggi, in un mondo profondamente
mutato, rimane ragionevole il compito di comunicare agli altri il Vangelo di
Gesù Cristo.
E tuttavia c’è anche un secondo
modo, più semplice, per giustificare oggi questo compito. La gioia esige di essere comunicata. L’amore esige di essere
comunicato. La verità esige di essere comunicata. Chi ha ricevuto una
grande gioia, non può tenerla semplicemente per sé, deve trasmetterla. Lo
stesso vale per il dono dell’amore, per il dono del riconoscimento della verità
che si manifesta.
Quando Andrea incontrò Cristo, non
poté far altro che dire a suo fratello: “Abbiamo trovato il Messia” (Gv 1,41).
E Filippo, al quale era stato donato lo stesso incontro, non poté far altro che
dire a Natanaele che aveva trovato colui del quale avevano scritto Mosè e i
profeti (Gv 1,45). Annunciamo Gesù Cristo non per procurare alla nostra
comunità quanti più membri possibile; e tanto meno per il potere. Parliamo di
Lui perché sentiamo di dover trasmettere quella gioia che ci è stata donata.
Saremo annunciatori credibili di
Gesù Cristo quando l’avremo veramente incontrato nel profondo della nostra
esistenza, quando, tramite l’incontro con Lui, ci sarà stata donata la grande
esperienza della verità, dell’amore e della gioia.
2. Fa parte della natura della
religione la profonda tensione fra l’offerta mistica a Dio, in cui ci si
consegna totalmente a lui, e la responsabilità per il prossimo e per il mondo
da lui creato. Marta e Maria sono sempre inscindibili, anche se, di volta in
volta, l’accento può cadere sull’una o sull’altra. Il punto d’incontro tra i
due poli è l’amore nel quale tocchiamo al contempo Dio e le sue creature.
“Abbiamo conosciuto e creduto l’amore” (1 Gv 4,16): questa frase esprime
l’autentica natura del cristianesimo. L’amore, che si realizza e si rispecchia
in modo multiforme nei santi di tutti i tempi, è l’autentica prova della verità
del cristianesimo.
Benedetto XVI
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