Marzo
22, 2015 Alfredo Mantovano da Tempi
Oggi come
allora la comunità internazionale deve decidere se, come insegna la dottrina
sociale della Chiesa e come ha ricordato papa Francesco, non sia urgente
esercitare il diritto e il dovere di «fermare l’aggressore ingiusto»
La storia non
è mai uguale a sé stessa. Riesce a essere maestra, se si decide di prenderne
gli insegnamenti e di cogliere le analogie con quanto accaduto in altre epoche.
Nel 1480 Otranto, città italiana all’epoca
fra le più importanti, è distrutta, i suoi abitanti sono uccisi in
combattimento e i sopravvissuti martirizzati uno per uno, tagliando loro la
testa, esattamente come fanno oggi i boia dello Stato islamico,
dall’esercito ottomano di Maometto II.
La distruzione
di Otranto non avviene per caso: segue di 27 anni la presa di Costantinopoli ed
è l’esito della ritrosia dei governanti dell’Occidente a unire le forze contro
la minaccia proveniente da Oriente. Vi è chi giunge all’intelligenza col
nemico: in un conflitto che vede schierati da una parte il Papato e Napoli e
dall’altra Firenze, Milano, Venezia e la Francia, costellato da omicidi e
congiure, Lorenzo de’ Medici e la Serenissima spingono i Turchi ad aggredire le
sponde adriatiche del Regno partenopeo.
Novant’anni dopo, nel 1571, la ruota gira diversamente: una
flotta di Stati cristiani ferma la minaccia turco-islamica nel Mediterraneo al
largo di Lepanto. Lo scenario
europeo non è migliorato rispetto al 1480: la Francia fa lega con i principati
protestanti per contrapporsi agli Asburgo e si compiace della pressione che i
turchi esercitano contro l’Impero nel Mediterraneo; Parigi e Venezia non
muovono un dito per difendere i Cavalieri di Malta nell’assedio condotto contro
di loro da Solimano il Magnifico.
La vittoria di
Lepanto non è quindi il frutto della convergenza di interessi politici; al
contrario, è un inaspettato trionfo che si realizza nonostante le divergenze:
per una volta principi, politici e comandanti militari sanno accantonare le
divisioni e unirsi per difendere l’Europa, grazie a un residuo di visione del
mondo sostanzialmente comune, fondata sul rispetto del cristianesimo e del
diritto naturale.
L’indifferenza
è una resa
Oggi la minaccia terroristica e la persecuzione delle comunità cristiane non risparmia nessuna zona del globo. Recarsi a Messa la domenica in Pakistan o in Nigeria è andare incontro al martirio; lo stesso accade se non si fugge dai luoghi dove si parla ancora l’aramaico, l’antica lingua di Gesù. Le stragi e le decapitazioni dei fedeli di Cristo in diretta tv sono pianificate e puntano, come si voleva fare a Otranto nel 1480 o come sarebbe accaduto all’Italia e alla Spagna se non ci fosse stata Lepanto, a eliminare la Croce come segno di speranza e di salvezza. Oggi come allora ogni comunità cristiana è chiamata alla preghiera perché la fede dei martiri resti salda, ma la comunità internazionale deve decidere se, come insegna la dottrina sociale della Chiesa e come ha ricordato papa Francesco, non sia urgente esercitare il diritto e il dovere di «fermare l’aggressore ingiusto».
Certo, lo
stesso Pontefice aggiunge che la soluzione non sta nella sola opzione militare,
che «una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto»,
che la difesa deve essere multilaterale, possibilmente sotto l’egida di
organizzazioni internazionali.
Ma la scelta è fra Otranto e Lepanto, fra
l’indifferenza che concorre ai massacri e il sentire come una lesione a sé
stessi l’uccisione di migliaia di fedeli mentre assistono alla Messa. Non
scegliere significa aver deciso che i boia vadano avanti.
Nessun commento:
Posta un commento