L’essenza dello squadrismo è un radicale disconoscimento dell’altro
come persona, visto come ostacolo a ciò che voglio, come oggetto da eliminare; è
uno “stile” di vita violento, l’esatto contrario della democrazia. Il prototipo
perfetto dello squadrista, con la presunzione e la supponenza
dell’eletto, menzognero ignorante e razzista come tutti radical-chic, è oggi
Francesco Merlo.(ndA)
Di Luigi
Amicone da Tempi
Insulti forsennati.
Calunnie scimmiesche. Non un fatto, una pezza d’appoggio, una virgola fuori
posto rispetto al tono e al registro del mero linciaggio a mezzo stampa
Volevate
merda? Eccola. Ieri sulla prima e
sull’intera pagina 35 di Repubblica ne scorre in quantità
pericolose. Non solo per l’olfatto. Ma anche per lo Chanel numero 5 del diritto
alla critica e all’informazione. Serve a qualcosa, il letame? Sì. Serve a
seppellire un ministro e la sua progenie.
Di tutta
l’inchiesta Grandi Opere, Francesco Merlo trangugia ed espelle solo un
mischione di livore e di animosità. Che messe in pagina fanno l’effetto della
materia fumante. Insulti e calunnie che non puoi neanche vomitare, tanto sono
spessi, densi, violenti. Tanto passano per oro colato che va giù impetuoso,
pigiato a forza, gorgogliante nella strozza della vittima di turno.
Succede
questo. Passa un ministro non indagato dai magistrati. Passa insudiciato per il
fatto stesso di non aver commesso alcun reato. Passa colpevole di niente.
Massacrato a mezzo di intercettazioni rese pubbliche per la classica gogna
assassina. Infangato da illazioni che scatenano la pancia dell’invidia sociale.
Sfregiato dal consueto uso politico delle inchieste. Insomma passa la testa del
ministro Maurizio Lupi. E
il solito letamaio di giustizia da bar sport.
Ma già,
siccome lo scriba è fermo all’epoca in cui l’ebreo era considerato colpevole
per il solo fatto di rappresentarlo come essere losco, spregevole, dal naso
adunco, nel “contesto” di “affarista”, speculatore, predatore e sfruttatore
dell’umanità, il Merlo è meraviglioso nell’affrescare “L’isola dei morti”
di Böcklin, il dipinto preferito dal Fuhrer.
Bocklin, l'isola dei morti |
Dice già tutto
nell’incipit: «“Prima che da ministro devi dimetterti da padre”, gli avrebbe
detto don Giussani». Ieri era san Giuseppe, la festa del papà. Dunque va
bene così. È giusto che l’odiatore la festeggi così.
E infatti,
preso per la collottola dal verbo di Merlo, Lupi diventa un morto che cammina.
Diventa un padre spregevole che «getta la croce sulle spalle del figlio». Un
padre abbietto che si materializza «nell’immagine di quel ministro
dell’Ingegneria Pubblica che non molla la poltrona». E «perciò invece di
liberare il figlio, lo aveva dannato e ora lo continuava a con-dannare alla
Corruzione di Stato».
Diventa il prototipo del giudeo ciellino. Quello
della «“fede che si fa opera”, come l’ospedale di Don Verzè per esempio,
“verbum caro factum est”, il verbo si è fatto carne». O più precisamente,
«l’esempio originale della Compagnia delle Opere, di quel gran fumo di
clericalismo simoniaco, presunte truffe, denunzie, scandali, ricatti, minacce e
processi penali che ha accompagnato il miracolo economico di Cl».
Infine, Lupi
diventa il cranio di un ministro («non indagato») su cui Repubblica pianta
la bandiera nera. «Dunque – per concludere – avrebbe detto don Giussani a Lupi:
“Per duemila euro al mese hai venduto il tuo Luca all’Italia rapace che nessuno
conosce meglio di te”».
Ed
è giusto così. È proprio giusto mettersi nella testa di don Giussani così.
Un po’ come il giustiziere Jihadi John, boia dell’Isis, si è messo nella testa
delle sue vittime.
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