giovedì 5 marzo 2015

LA CONVERSIONE AL CRISTIANESIMO SECONDO GUSTAVE BARDY.

UNA SOLA PAROLA PER TANTE REALTÀ DIVERSE
di Leonardo Lugaresi
https://leonardolugaresi.wordpress.com/2015/02/01/la-conversione-al-cristianesimo-secondo-gustave-bardy-una-sola-parola-per-tante-realta-diverse/

«L’idea di una conversione, nel senso che adesso diamo a questo termine, è restata a lungo, forse fino all’avvento del cristianesimo, totalmente estranea alla mentalità greco-romana». Questa impegnativa asserzione – che, pur con i distinguo e le sfumature che in sede di dibattito storiografico le si possono apportare, rimane sostanzialmente condivisibile – apre il libro di Gustave Bardy, La conversione al cristianesimo nei primi secoli, pubblicato nel 1947 ma ancora oggi ricco di motivi di interesse e di riflessione. In particolare, a noi che, avvicinandoci ormai alla fine di quest’anno della fede, proposto da papa Benedetto XVI a tutti i cristiani come un «invito ad un’autentica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo» (Porta fidei, 6), ci chiediamo quanto seriamente abbiamo preso finora la provocazione che l’appello del papa conteneva, può essere utile tener conto di alcune delle considerazioni con cui il grande patrologo francese motivava il suo giudizio.
Masaccio il battesimo dei neofiti
In teoria, sappiamo tutti che cosa significa la parola conversione: una trasformazione radicale del modo di pensare e di vivere; una metanoia, cioè letteralmente un andare oltre il pensiero di prima, un ri-pensamento, in definitiva un cambiamento della mente. Ciò implica (ma questo è già meno scontato, oggigiorno) la rottura e il rinnegamento di ciò che si era in precedenza: è un “sì” a qualcosa (o a qualcuno) che comporta necessariamente un “no” a qualcos’altro. La conversione, se è vera, è sempre in qualche modo una morte: come dice un grande scrittore spirituale della tradizione bizantina, Nicola Cabasilas, parlando del battesimo, «quest’acqua distrugge una vita e ne suscita un’altra, annega l’uomo vecchio e fa risorgere il nuovo». La simbologia del rito per immersione, com’era di regola praticato nell’antichità cristiana, rendeva forse più evidente, soprattutto nel caso degli adulti, l’immagine di tale “annegamento” dell’uomo vecchio, ma questo significato c’è comunque nel battesimo cristiano, anche quando materialmente ci si limita ad aspergere con qualche goccia d’acqua il capo di un bambino appena nato. Non saprei dire, però, quanto profondamente esso sia colto dalla gran parte di coloro che vi assistono.
Perché il mondo antico era quasi completamente estraneo a questo concetto di conversione? Un primo motivo, secondo Bardy, è che la religione greco-romana era una religione tradizionale, anzi potremmo dire “ambientale”, nel senso che faceva parte integrante dell’ambiente civile e non era neanche pensabile spogliarsene per aderire ad un altro sistema religioso. Questa sorta di fattore inerziale, presente anche nel nostro mondo quando si era ancora in regime di cristianità, sembra ormai del tutto scomparso nella società contemporanea, benché in Italia il fenomeno sia forse meno evidente che in altri paesi.

Sotto questo profilo, dunque, dovremmo paradossalmente dirci favoriti, rispetto all’antichità, nell’apprezzare adeguatamente la portata della scelta che l’adesione alla fede cristiana richiede, se non fosse che, demolite le ultime strutture di quel “cristianesimo ambientale” che ha retto fino al recente passato (ed al quale si poteva addebitare un certo ottundimento dell’idea di conversione, appunto perché cristiani si nasceva e non si avvertiva il bisogno di diventarlo), lo spazio sociale ovviamente non è rimasto vuoto e neutro. Su questo si innesta l’attualità delle ulteriori considerazioni di Bardy: il mondo antico era politeista, proprio come il nostro (aggiungiamo noi) sta tornando ad essere. Ora, nel politeismo non ci può essere, propriamente, l’idea di conversione, perché esso è per sua natura plurale, inclusivo e – come dice uno studioso oggi molto reputato, l’egittologo Jan Assmann – «traducibile». Nella prospettiva che il politeismo gli apre, l’uomo può sempre transitare, senza rotture, da un culto ad un altro, perché le relazioni con gli “dèi” (ma oggi potremmo weberianamente dire con i valori e gli interessi) si possono accumulare, moltiplicare e persino cambiare, “traducendole”, appunto, da un idioma religioso ad un altro. D’altra parte, proprio perché sono tutte relazioni “deboli”, esse lasciano spazio all’insicurezza e di qui nasce la tendenza a moltiplicarle: nessun dio (nessuna scelta, nessun valore) è “l’ultimo”, ce ne potrebbe sempre essere un altro di cui si ha bisogno. Ma non ci sarà mai bisogno di “rompere” con il vecchio dio per entrare in rapporto con quello nuovo.

Riconosciamo onestamente che c’è, in questa vocazione alla molteplicità, qualcosa di molto seducente anche per noi; anzi, forse si potrebbe dire che proprio questo è il motivo per cui oggi siamo così attratti, a volte anche inconsapevolmente, dal politeismo, al punto che tutto un filone importante della cultura contemporanea lo considera – naturalmente non come religione in senso stretto ma come “opzione culturale” – molto più avanzato, flessibile e adatto alla modernità rispetto ai monoteismi storici, imputati di intolleranza e chiusura. Si pensi, ad esempio, al Genio del paganesimo, celebrato da un libro di Marc Augé più di trent’anni fa, o alla Lode del politeismo del filosofo Odo Marquard. Del resto, l’idea che si possa compiere una scelta esclusiva e irrevocabile, che rompe i ponti con la vita precedente sembra sempre più insopportabile a molti uomini del nostro tempo. Se ci si pensa, la diffidenza, che sta ormai diventando vera e propria ostilità, nei confronti della famiglia fondata sul matrimonio indissolubile ha molto a che fare con questa mentalità “politeista”. La riflessione che possiamo dunque raccogliere, dalle pagine di Bardy, è che in una cultura di questo genere l’idea stessa di conversione diviene inconsistente, perde spessore e riconoscibilità. Diventare anchecristiani, ma aggiungendo il cristianesimo (o “pezzi” di cristianesimo) al nostro bagaglio di ricchezze precedenti, che ci vogliamo tenere ben stretto: questa sembra essere la traduzione del concetto di traduzione oggi più in voga.
Un’altra ragione di estraneità del mondo antico all’idea di conversione, che pure ci interessa, si lega, secondo Bardy, al formalismo della religione. Citando Cicerone (De natura deorum II,72), egli ricorda l’etimologia di religioda relegere, cioè ripassare scrupolosamente tutte le azioni del culto agli dèi. Questa è, nella cultura greco-romana, l’essenza della religione: si tratta di fare delle cose per gli dèi e di farle bene, in modo appropriato, praticando esattamente «le cerimonie imposte dall’uso». 

Di nuovo, questo sembra non riguardarci affatto, poiché sembra che noi ci siamo ormai sbarazzati di ogni formalismo liturgico all’insegna della massima spontaneità del rapporto personale con Dio. Le cose, però non stanno così: l’incontro con Dio è sempre destabilizzante per le sicurezze e gli equilibri umani e la prima mossa che l’uomo tenta, quando si trova a contatto con quella presenza misteriosa ed esorbitante, è sempre in qualche modo difensiva. L’uomo, davanti a Dio, cerca anzitutto di “darsi un contegno”, si pone il problema di “che cosa fare”: vuole stabilire una linea di condotta, trovare un modo di gestire quel rapporto che lo mette in crisi. Di solito consideriamo le religioni come modi per avvicinarsi a Dio, per rivolgersi a Lui, e certo sono anche questo; ma forse potremmo vederle, altrettanto giustamente, anche da un altro punto di vista: come dei “sistemi di sicurezza” per tenersi a debita distanza da Dio, o meglio ancora per tenerlo alla giusta distanza dalla vita degli uomini. La definizione platonica di eusebeia, «una certa scienza dei sacrifici e delle preghiere […] la scienza dei doni e delle domande da fare agli dèi», qui evocata da Bardy citando l’Eutifrone si attaglia bene ad una concezione di religione di questo genere. Si tratta di sapere cosa dare e cosa chiedere alla divinità e quali sono i confini da non oltrepassare.
Il Dio cristiano, però, è un dio quanto mai intrusivo, che non si lascia sistemare da nessuna pratica religiosa: facendosi uomo, è entrato nella nostra vita; annullando ogni separazione, ci ha privato di ogni spazio riservato e ci ha tolto ogni rifugio. Anche per questo il cristianesimo antico, nel suo approccio alla società greco-romana, ha sempre rifiutato di presentarsi come una delle religioni presenti nello spazio pubblico La tentazione di ridurre la conversione all’assunzione di regole di comportamento e/o di forme devozionali che “ci mettano a posto” con Dio, tuttavia, è forte anche per i cristiani. L’esperienza di fede può così degenerare, riducendosi ad un modo religioso per tenere Dio alla giusta distanza: anche in questo caso non si dà più vera conversione.
C’è un’ulteriore suggestione che possiamo ricavare da Bardy: parlando di formalismo delle religioni antiche egli non vuole affatto negare che i loro culti fossero in grado di provocare “emozioni religione” anche molto intense ai loro adepti. Anzi, si potrebbe osservare che, rispetto a molti culti pagani, la liturgia cristiana sembrava avere ben poco da offrire su questo piano. Non ci sono, nel cristianesimo primitivo, riti paragonabili, per impatto emotivo e capacità di suggestione psicologica, a quelli della maggior parte delle religioni misteriche concorrenti. La semplicità e, se così possiamo dire, la “ferialità” del culto cristiano non sfuggono, ad esempio, ad un osservatore esterno come Plinio il Giovane, quando ne riferisce all’imperatore Traiano, quasi stupito che le riunioni dei cristiani abbiano un contenuto tanto modesto e ordinario (ep. X, 96). Ma la forza emotiva di un gesto rituale non va confusa con la profondità del suo significato e con l’impegno esistenziale che può richiedere a chi vi prende parte: «le emozioni di cui abbiamo parlato», commenta Bardy dopo aver passato in rassegna alcuni di quei culti, «sono essenzialmente passeggere e si accompagnano all’atto religioso. Quando questo è ormai compiuto esse scompaiono […] non riescono a produrre quella trasformazione spirituale nella quale consiste la conversione». Anche noi, oggi, affamati come siamo di sensazioni nuove e forti, spesso erroneamente chiamiamo “esperienze” o “eventi” i momenti che ce le procurano, ma essi, nel loro moltiplicarsi, non danno luogo al fenomeno della conversione.

Un’ultima annotazione: c’è, secondo Bardy, una differenza fondamentale nel modo di concepire la santità. Certo, è universalmente accettato che “santo” è ciò che appartiene solo a Dio ed è separato dall’uso comune degli uomini in quanto non appartiene al regime normale delle cose. Ma la santità può restare un fatto esteriore, che riguarda la purità fisica e rituale, oppure, come nel cristianesimo, approfondirsi nel senso di un’appartenenza totale dell’essere umano a Dio. Ancora una volta, qui tocchiamo qualcosa che ci riguarda come “neopagani”: mai come al giorno d’oggi , in mezzo ad un inquinamento morale e materiale senza precedenti, c’è stata tanta nostalgia della “purezza”. Ma la purezza che viene in tante forme vagheggiata, è quasi sempre concepita come un fatto fisico; è l’espressione di un salutismo che riguarda in prima istanza cose come l’alimentazione, la distensione del corpo e l’equilibrio delle sue funzioni organiche … un’armonia alla quale deve concorrere anche la purezza (o la positività) del pensiero e che perciò si connota in modo “paraspirituale”. Il rischio è che si scambi per conversione l’adozione di un più sano regime di vita, una più attenta cura di sé, il potenziamento delle proprie facoltà, ma convertirsi non è, appena, sforzarsi di diventare migliori. Come scriveva nell’ottobre 2012 l’allora cardinale Bergoglio, nella lettera pastorale inviata ai fedeli della sua diocesi in occasione della proclamazione dell’anno della fede, «varcare la soglia della fede comporta la costante trasformazione dei nostri atteggiamenti, modi e regole di vita; riformulare e non mettere toppe o dare una riverniciatura, conferire la forma nuova che Gesù Cristo dà a tutto ciò che la sua mano e il suo Vangelo di vita tocca, spingerci a fare qualcosa di inedito per la società e per la Chiesa; perché se uno è in Cristo, è una nuova creatura».


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