Di cosa parliamo veramente quando
parliamo di diritti civili? Quando si combatte una battaglia sarebbe bello farlo in modo leale. Il mondo Lgbt per la sua crociata ha deciso di puntare sul
piagnisteo, usando l’espressione “diritti civili”. Usurpando un’espressione che
nell’immaginario collettivo richiama immediatamente le lotte degli afroamericani
di Costanza Miriano | 09 Febbraio 2016 ilfoglio
Di cosa parliamo veramente quando parliamo di diritti civili? Quando si
combatte una battaglia sarebbe bello farlo in modo leale. Il mondo Lgbt per la
sua crociata ha deciso di puntare sul
piagnisteo, usando l’espressione “diritti civili”. Usurpando un’espressione
che nell’immaginario collettivo richiama immediatamente le lotte degli
afroamericani, quelle sì, per i diritti civili, il movimento Lgbt compie però
una profonda scorrettezza ideologica. I
diritti civili, cioè le libertà di pensiero, espressione, associazione,
elettorato non sono negati a nessun cittadino italiano, mentre l’oggetto delle
richieste che ruotano intorno alla Cirinnà è tutto un altro. Lo ha capito
qualsiasi osservatore onesto e sano di mente, lo ha dichiarato il Senatore Lo Giudice per esempio a “Le Iene” qualche
sera fa: quello che vogliamo veramente è cambiare la visione sociale
dell’omosessualità. Per poco non cadevo dalla sedia quando l’ho sentito
ammettere a viso aperto, e da colui che della legge Cirinnà potrebbe essere, a
occhio e croce, l’ispiratore.
Ora, questo mi sembra un obiettivo onesto, qualcosa che ha un nome chiaro;
sarebbe stato leale ammetterlo fin dall’inizio. Adesso che le carte sono
scoperte ci si può confrontare a viso aperto, e senza vittimismo.
Lei, Senatore, e tutti quelli che la
pensano come lei, non state chiedendo qualcosa che vi è crudelmente negato,
perché i diritti civili e individuali e anche quelli dei conviventi ce li avete
già tutti. Voi volete cambiare l’idea collettiva su di voi, e volete farlo per
legge. Siate uomini, allora: non trinceratevi dietro l’espressione vigliacca e
disonesta dei diritti civili.
Qui Rosa Parks non siete voi. I neri che non possono sedersi in autobus qui
sono i bambini. Come quello che vi siete
procurato in cambio di centomila dollari, lo ha detto lei a “Le Iene”,
privandolo della mamma. Rosa Parks non siete voi: non vi viene vietato
l’accesso al bagno dei bianchi, ma semplicemente proibito di fare una cosa
illegale e crudele, che con la Cirinnà pretendete di ratificare ex post
(dichiararvi padri o madri di un figlio non vostro senza passare dal tribunale
come tutti i genitori aspiranti adottivi).
Di cosa parliamo veramente, dunque,
quando parliamo di diritti civili?
I diritti dei conviventi già oggi garantiti in Italia non si interessano
minimamente al sesso delle persone: ometterei qui il noioso elenco, ma insomma
i conviventi possono andare a trovarsi all’ospedale, chiedere permessi
retribuiti per assistersi, succedere nella locazione e molto molto altro. I diritti già ci sono, ma agli
omosessuali molto raramente interessa codificare la loro unione, che è
tendenzialmente meno stabile di quella tra due di sesso diverso: lo
conferma il fatto che in tutti i paesi in cui il mariage pour tous è legge è
stato un flop, e anche noi il nostro floppino lo abbiamo avuto, perché i
registri delle unioni che sono in tanti comuni italiani sono pressoché vuoti:
solo duemila le unioni, otto nella trasgressiva Bologna. La casetta col tinello
e la benedizione del sindaco non rientra nelle aspirazioni di un numero
significativo di coppie omosessuali. Magari va bene così, a volte il disordine
interiore – così il Catechismo – che si esprime anche con l’omosessualità, può
anche diventare energia creativa – è più spesso dal dolore che noi umani
traiamo energia per dire delle cose. Chi vorrebbe vedere Michael Cunningham o
Baudelaire o Pasolini o Proust o Capote coi fiori d’arancio nelle foto coi
servizi di piatti? Ma perché noi, popolo
del Family Day continuiamo a dire non solo che siamo contro l’utero in affitto,
il minimo sindacale per un essere umano, ma anche contro qualsiasi legge sulle
unioni civili?
Esattamente per lo stesso motivo dell’Arcigay.
E’ la percezione sociale che interessa
anche a noi, consapevoli anche noi come quelli dell’Arcigay che una legge fa
mentalità, contribuisce a educare e formare coscienze. In gioco dunque c’è prima di tutto la base
condivisa e collettiva di una società. In
gioco c’è il destino collettivo dell’uomo, e solo, esclusivamente,
rigorosamente in questo campo, non sui sentimenti, lo Stato può avere voce in
capitolo, perché il matrimonio “non è un contratto di coabitazione – scrive
Scruton – ma un voto di unità”. La sua base è erotica, ma la sua funzione
“assicura la riproduzione sociale, la socializzazione dei bambini e il
passaggio del capitale sociale. Questi processi, che danno un appagamento
all’unione sessuale e sono un modo di andare oltre i suoi parchi imperativi nel
regno del dovere, dell’amore e dell’orgoglio, si produrrebbero difficilmente
senza il matrimonio”.
Ma c’è anche il destino degli individui.
C’è il desiderio per il vero bene delle persone con tendenza omosessuale, che questo vero bene faticherebbero
ancora di più a trovarlo in una società che promuovesse a valore collettivo il
desiderio individuale, una società che usa i loro sentimenti per uno scopo
politico, ingannando innanzitutto loro sulla condizione che vivono e quindi
inchiodandoli e riducendoli a essa.
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