sabato 13 febbraio 2016

L OMOGENITORIALITA’ E LA SUA DOMANDA


Cari Amici
nei giorni scorsi, anche in relazione al dibattito che si sta svolgendo nelle aule del Senato, alcuni autorevoli professionisti della sanità ( pediatri, psichiatri , psicologi ) hanno espresso i loro pareri sulla cosiddetta “ stepchild adoption”,  pareri che hanno avuto un importante risalto mediatico, pareri tanto perentori quanto scientificamente sospetti.
L’Associazione Medicina e Persona ha chiesto alla prof.ssa Eugenia Scabini, Presidente  del Comitato Scientifico del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica di Milano un intervento che ci fornisse alcuni   elementi per comprendere e valutare ciò di cui si sta dibattendo.


Gustav Vigeland, Oslo 

L'acceso dibattito sul tema della filiazione per le coppie dello stesso sesso, per la sua valenza altamente emotiva, si presta ad affermazioni di stampo ideologico e rende difficile invece l'emergere di interrogativi che aiutino davvero a riflettere, cosa quanto mai necessaria per una questione la cui importanza non può sfuggire a nessuno.
Una di queste è l'affermazione fatta propria anche dall’American PsychologicalAssociation (Patterson, 2005) che le ricerche psicosociali dimostrerebbero unanimemente non esservi alcuna differenza nello sviluppo dei bambini nati e cresciuti da coppie dello stesso sesso rispetto ai figli di coppie eterosessuali.
La perentorietà di questa affermazione è già sospetta perché, come sa un buon ricercatore, le ricerche (specie nel campo della psicologia) mentre portano conferme ne dichiarano i limiti e aprono a nuove domande.

E in questo caso, come ha ben rilevato Loren Marks (2012), i limiti metodologici sono particolarmente consistenti: i campioni sono prevalentemente di comodo, composti da membri militanti di organizzazioni omosessuali, quasi inesistenti le ricerche longitudinali, l'età dei figli raramente raggiunge la giovinezza, età in cui emerge con più evidenza il tema identitario. Per non parlare poi di domande del tipo “cosa si intende per benessere del bambino?”, “come si misura?”.
Perciò è d'obbligo assumere un atteggiamento di cautela nella generalizzazione di questi risultati (Cigoli e Scabini, 2013), visto peraltro che altre ricerche con campioni rappresentativi (Regnerus, 2012; Sullins, 2015) danno un panorama meno confortante sullo stato di "salute" di tali figli.

Ma oltre a ciò vale la pena di porsi un interrogativo che raramente è posto.
Perché mai far dipendere una così radicale messa in discussione della famiglia e della filiazione dai risultati di ricerche che, per loro natura, ci danno informazioni parziali e richiedono ulteriori approfondimenti?

Se ci volgiamo poi all'esperienza clinica il panorama si fa altrettanto confuso. Soprattutto per quanto riguarda l'apporto della psicoanalisi si fa avanti prepotente la tendenza a liquidare frettolosamente le vicissitudini identitarie legate alla costellazione edipica che per decenni sono state portate a supporto dell’importanza, per lo sviluppo del bambino, di potersi identificare col padre e con la madre. Il corporeo, segnato dalla differenza sessuale, viene invece da alcuni autori che si rifanno alla psicoanalisi (Lingiardi e Carone, 2013) annullato e assorbito dal mentale (in linea con le posizioni più radicali delle teorie del gender) e l'essenza della genitorialità viene identificata nella qualità della relazione tra i partner, indipendentemente dalla combinazione sessuale della coppia.
Così essere genitori ha poco a che fare con essere dei generanti (né tanto meno viene posto il tema della genealogia familiare del genitore) e il possesso di competenze e la capacità di fornire cure adeguate è ciò che legittima l'essere genitori e che consente ai bambini di crescere bene.
Peccato che disponiamo di una immane mole di evidenze a proposito di bambini adottati, accolti in famiglie e oggetto di cure affettuose e competenti, che malgrado ciò riportano, e spesso con tormento, itinerari di vita dominati dalla domanda sulla loro origine. E si noti che, in questo caso, i genitori hanno il “vantaggio” di non aver deliberatamente scelto questa condizione per i figli e quindi di non doverne direttamente rispondere.
E come mai allora non viene dato spazio al dramma del vuoto d'origine che o dalla parte del padre o dalla parte della madre affligge e affliggerà i figli delle coppie omogeneri?
E non si dica che tale dramma può essere aggirato semplicemente facendo leva sulla trasparenza dell’informazione perché il figlio, in quei casi, non accede al padre ma ad un donatore di seme o peggio non incontra una madre ma una donna che ha venduto il suo corpo...e il genitore sarebbe quello che l’ha comprato. E non servono certo gli abbellimenti semantici che trasformano l'utero in affitto in gestazione di sostegno o addirittura in gestazione per altri, a rispondere alla domanda di senso dei figli.

Perciò, i termini dell’attuale dibattito sullo sviluppo dei bambini figli di coppie omogeneri sono, a parere di chi scrive, mal posti.
Non si tratta tanto di dimostrare o documentare che essi ricevono buone e competenti cure e, dalla risposta positiva a questo quesito, legittimare questa modalità di generare. Il punto non è documentare la presenza di una buona qualità di relazione tra genitori e figli. Perché mai infatti coppie omogeneri non dovrebbero essere attrezzati in questo senso? L’interrogativo è di tipo diverso: come e a quale prezzo può strutturarsi e svilupparsi un’identità con un vuoto di senso relativamente alla propria origine?
Il tema dell'origine e il suo cruciale interrogativo (Cigoli e Scabini, 2014) rimane infatti come ferita al cuore dell'identità del soggetto umano in crescita che è in grave difficoltà a rispondere alla domanda “chi sono io?” se non può rispondere alla domanda “da dove vengo?”.


Eugenia Scabini

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