Cari Amici
nei
giorni scorsi, anche in relazione al dibattito che si sta svolgendo nelle aule
del Senato, alcuni autorevoli professionisti della sanità ( pediatri,
psichiatri , psicologi ) hanno espresso i loro pareri sulla cosiddetta “
stepchild adoption”, pareri che hanno avuto un importante risalto
mediatico, pareri tanto perentori quanto scientificamente sospetti.
L’Associazione
Medicina e Persona ha chiesto alla prof.ssa
Eugenia Scabini, Presidente del
Comitato Scientifico del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università
Cattolica di Milano un intervento che ci fornisse alcuni elementi
per comprendere e valutare ciò di cui si sta dibattendo.
Gustav Vigeland, Oslo |
L'acceso
dibattito sul tema della filiazione per le coppie dello stesso sesso, per la
sua valenza altamente emotiva, si presta ad affermazioni di stampo ideologico e rende difficile invece
l'emergere di interrogativi che aiutino davvero a riflettere, cosa quanto mai
necessaria per una questione la cui importanza non può sfuggire a nessuno.
Una di queste è l'affermazione fatta propria
anche dall’American PsychologicalAssociation (Patterson, 2005) che le ricerche
psicosociali dimostrerebbero unanimemente non esservi alcuna differenza nello
sviluppo dei bambini nati e cresciuti da coppie dello stesso sesso rispetto ai
figli di coppie eterosessuali.
La perentorietà di questa affermazione è già
sospetta perché, come sa un buon ricercatore, le ricerche (specie nel campo
della psicologia) mentre portano conferme ne dichiarano i limiti e aprono a
nuove domande.
E in questo caso,
come ha ben rilevato Loren Marks (2012), i limiti metodologici sono
particolarmente consistenti: i campioni sono prevalentemente di comodo,
composti da membri militanti di organizzazioni omosessuali, quasi inesistenti
le ricerche longitudinali, l'età dei figli raramente raggiunge la giovinezza,
età in cui emerge con più evidenza il tema identitario. Per non parlare poi di
domande del tipo “cosa si intende per benessere del bambino?”, “come si
misura?”.
Perciò è d'obbligo assumere un atteggiamento
di cautela nella generalizzazione di questi risultati (Cigoli e Scabini, 2013),
visto peraltro che altre ricerche con campioni rappresentativi (Regnerus, 2012;
Sullins, 2015) danno un panorama meno confortante sullo stato di
"salute" di tali figli.
Ma oltre a ciò vale
la pena di porsi un interrogativo che raramente è posto.
Perché mai far
dipendere una così radicale messa in discussione della famiglia e della
filiazione dai risultati di ricerche che, per loro natura, ci danno
informazioni parziali e richiedono ulteriori approfondimenti?
Se ci volgiamo poi all'esperienza clinica il
panorama si fa altrettanto confuso. Soprattutto per quanto riguarda l'apporto
della psicoanalisi si fa avanti prepotente la tendenza a liquidare
frettolosamente le vicissitudini identitarie legate alla costellazione edipica
che per decenni sono state portate a supporto dell’importanza, per lo sviluppo
del bambino, di potersi identificare col padre e con la madre. Il corporeo, segnato dalla differenza
sessuale, viene invece da alcuni autori che si rifanno alla psicoanalisi
(Lingiardi e Carone, 2013) annullato e
assorbito dal mentale (in linea con le posizioni più radicali delle teorie del
gender) e l'essenza della genitorialità viene identificata nella qualità
della relazione tra i partner, indipendentemente dalla combinazione sessuale della
coppia.
Così essere genitori
ha poco a che fare con essere dei generanti (né tanto meno viene posto il tema
della genealogia familiare del genitore) e il possesso di competenze e la
capacità di fornire cure adeguate è ciò che legittima l'essere genitori e che
consente ai bambini di crescere bene.
Peccato che disponiamo di una immane mole di
evidenze a proposito di bambini adottati, accolti in famiglie e oggetto di cure
affettuose e competenti, che malgrado ciò riportano, e spesso con tormento,
itinerari di vita dominati dalla domanda sulla loro origine. E si noti che, in
questo caso, i genitori hanno il “vantaggio” di non aver deliberatamente scelto
questa condizione per i figli e quindi di non doverne direttamente rispondere.
E come mai allora non viene dato spazio al dramma del vuoto d'origine che o dalla
parte del padre o dalla parte della madre affligge e affliggerà i figli delle
coppie omogeneri?
E non si dica che tale dramma può essere
aggirato semplicemente facendo leva sulla trasparenza dell’informazione perché
il figlio, in quei casi, non accede al padre ma ad un donatore di seme o peggio
non incontra una madre ma una donna che ha venduto il suo corpo...e il genitore
sarebbe quello che l’ha comprato. E non servono certo gli abbellimenti
semantici che trasformano l'utero in affitto in gestazione di sostegno o
addirittura in gestazione per altri, a rispondere alla domanda di senso dei
figli.
Perciò,
i termini dell’attuale dibattito sullo sviluppo dei bambini figli di coppie
omogeneri sono, a parere di chi scrive, mal posti.
Non
si tratta tanto di dimostrare o documentare che essi ricevono buone e
competenti cure e, dalla risposta positiva a questo quesito, legittimare questa
modalità di generare. Il punto non è documentare la presenza di una buona
qualità di relazione tra genitori e figli. Perché mai infatti coppie omogeneri
non dovrebbero essere attrezzati in questo senso? L’interrogativo è di tipo
diverso: come e a quale prezzo può
strutturarsi e svilupparsi un’identità con un vuoto di senso relativamente alla
propria origine?
Il tema dell'origine
e il suo cruciale interrogativo (Cigoli e Scabini, 2014) rimane infatti come
ferita al cuore dell'identità del soggetto umano in crescita che è in grave
difficoltà a rispondere alla domanda “chi sono io?” se non può rispondere alla
domanda “da dove vengo?”.
Eugenia Scabini
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