AVVERTIRE CHE UNA STRADA PUÒ ESSERE
PERICOLOSA VA SEMPRE BENE (TUTTE LE STRADE POTENZIALMENTE LO SONO), MA NON DICE
NULLA SUL FATTO CHE SIA LA STRADA GIUSTA OPPURE NO.
Il nucleo della critica che il padre Lind, nel suo articolo pubblicato
dalla Civiltà Cattolica, muove alla opzione Benedetto è che «esaltare la realtà della persecuzione
potrebbe comportare un rischio: quello di percepire il proprio “piccolo gruppo”
come la Chiesa vera e migliore delle altre. In definitiva, questo è il rischio
dell’arroganza, connesso a un peccato ecclesiale contro l’unità e la
comunione». Questa considerazione gli suggerisce un paragone, il cui
svolgimento occupa gran parte del suo testo, tra la proposta di Dreher e «la
tentazione dell'eresia donatista».
Osservo che la formulazione della sua critica è corretta, ma proprio per
questo risulta, se la si esamina attentamente, del tutto inappropriata e
irrilevante rispetto al vero senso dell'opzione Benedetto. Padre Lind afferma
che «esaltare la realtà della
persecuzione potrebbe comportare un rischio»: ora, se per “esaltare” intende
“innalzare, nobilitare, magnificare” (secondo il significato proprio di questo
verbo in italiano) egli ha certamente ragione, anzi il suo giudizio è fin
troppo blando. La persecuzione, da un punto di vista cattolico, non può mai
essere considerata un bene e perciò essere cercata o provocata. Questa fu,
semmai, la tendenza presente in altri gruppi cristiani dell'antichità, in
contrasto con la “grande chiesa” (non solo i donatisti di cui parla Lind, ma
anche, e forse ancor di più, dei montanisti, nel II secolo). “Esaltare la realtà della persecuzione”,
perciò, comporta ben più di un rischio eventuale: è comunque un errore grave di
giudizio e può essere un peccato di superbia.
Faccio però notare, incidentalmente, che tale rimprovero andrebbe
legittimamente esteso anche a quei cristiani (nei confronti dei quali temo
invece che il padre Lind, e chi la pensa come lui, non abbia obiezioni) i quali
guardano quasi con soddisfazione alla diminuzione della chiesa in occidente e
alla sua crescente marginalizzazione, come esito benvenuto della fine della
tanto deprecata “cristianità” di matrice costantiniana. “Meglio che siamo pochi, ma convinti”, “Tutto ciò che sa di
'cristianesimo ambientale' o 'tradizionale' prima scompare e meglio è”, “Non
vale la pena, anzi è sbagliato difendere istituzioni, costumi e tradizioni
cristiane, bisogna andare fiduciosi verso un mondo in cui non hanno più ragione
di essere” eccetera, eccetera. Quante volte abbiamo sentito discorsi del
genere! Pastori che sembrano non preoccuparsi se le chiese sono semideserte;
documenti ecclesiastici che, anche quando devono certificare dei veri e propri
crolli, parlano sempre di “luci e ombre” e si preoccupano soprattutto di
esorcizzare i “profeti di sventure”; semplici fedeli che ormai hanno assimilato
l'idea ricevuta che sarà meglio per tutti quando essere cristiani sarà più
difficile (e che dopo tutto non è così essenziale essere cristiani perché in
fondo tutte le religioni portano all'unico Dio).
Ecco, questo è il punto, ed è un punto
doloroso, assolutamente drammatico, a mio parere: noi, qui in occidente, non
abbiamo ancora l'idea di quanto possa essere difficile vivere da cristiani in
un mondo completamente non cristiano. E chi parla di queste cose con
leggerezza, è un fatuo o un dannato, come diceva Pavese.
Qui sì che può annidarsi, se non dipende semplicemente da ignoranza o
stolidità, il peccato di superbia. Sia lodato Costantino, perché nel
complesso, pur con tutti i guai che ha comportato, ha reso meno difficile
essere cristiani. Noi non siamo tutti eroi, anzi quasi nessuno di noi lo è:
eppure il cristianesimo è per tutti, perché tutti possano diventare santi. Come
dice giustamente anche il padre Lind, nel seguito del suo articolo, per noi
vale la concezione agostiniana di chiesa
come «una società frammista di persone buone e cattive [...] formata da
credenti migliori e peggiori (o non tanto virtuosi)». Per tutti questi “poveri
cristiani” (tra i quali è prudente annoverare noi stessi) è davvero
caritatevole augurarsi che vivere la fede nel mondo diventi anche nei nostri
paesi tanto difficile quanto lo è oggi, tanto per fare un esempio, in Arabia
Saudita, in Pakistan, in Corea del nord, o anche in Cina? O quanto lo era ai
tempi della persecuzione di Decio o di quella di Diocleziano? E senza arrivare
a questi estremi, che carità e che
umiltà c'è nell'augurarsi o anche solo nell'essere indifferenti alla scomparsa
dei segni della presenza cristiana nella nostra società?
Ma il punto è anche un altro: l'opzione Benedetto non esalta affatto la
persecuzione, si limita a prendere atto che essa sta arrivando, anzi per certi
aspetti e in forme “morbide” (certo non cruente, ancora) c'è già. Questo è un
giudizio di fatto, sul quale si può concordare o dissentire – come si può discutere
sul modo migliore di reagire – ma tutto ciò non ha nulla a che fare con la tentazione donatista (o montanista)
dell'arroganza paventata dal padre Lind. Il quale, peraltro, per prudenza
(gesuitica?) formula la sua critica in modo così anodino da renderla
insignificante. Dice che l'opzione Benedetto «potrebbe comportare un
rischio»: grazie, ma quale posizione umana non ne comporta? Avvertire che una strada può essere
pericolosa va sempre bene (tutte le strade potenzialmente lo sono), ma non dice
nulla sul fatto che sia la strada giusta oppure no.
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