Caro Renzi,
anche se non ci conosciamo, né ci siamo mai parlati a tu per tu, mi permetto di
raccontarle che cosa passa per la testa di un ex-renziano come me. Non
sono mai stato iscritto a un partito, e meno che mai al Pd, di cui non mi sono
mai piaciuti l’attaccamento al potere e l’ostinato convincimento di
rappresentare «la parte migliore del paese».
E tuttavia,
quando lei di quel partito cercò di rinnovare la sostanza e il linguaggio, ho
fatto una cosa per me del tutto innaturale, ma che allora mi sembrò utile: ho
fatto la coda alle primarie, per votare lei, che mi pareva l’unico in grado di
modernizzare la cultura politica del campo progressista, di cui mi sono sempre
sentito parte.
Poi l’ho vista
in azione al governo, e l’ho vista far naufragare il suo stesso progetto di
riforma istituzionale. Ho cominciato a pensare che mi ero sbagliato, e che le
mie speranze erano state mal riposte. Ma il colpo di grazia è arrivato nel
2019, quando lei si fece promotore della più spregiudicata manovra parlamentare
della storia repubblicana: la nascita del governo giallo-rosso.
Attenzione,
però. La spregiudicatezza di quella manovra, per me, non risiedeva nel fatto
che l’unico collante del nuovo governo fosse il terrore del voto (per i Cinque
Stelle) e l’amore per il potere (per il Pd). E nemmeno nel fatto che lei
promuoveva un’alleanza, quella con il partito di Grillo, che fino ad allora
aveva escluso, e che inevitabilmente avrebbe snaturato il suo Pd, spegnendone
ogni residua vocazione riformista e modernizzatrice.
No, per me la
spregiudicatezza sta nella giustificazione che di quella manovra lei volle
dare. Allora lei si oppose strenuamente alle elezioni anticipate soprattutto
con un argomento, ovvero il rischio che Salvini potesse assumere «i pieni
poteri». Di fronte a quel rischio si poteva, anzi si doveva, anche digerire il
rospo-Cinque Stelle.
Ebbene, quella
giustificazione non sta in piedi. Quella giustificazione è solo il frutto di
una consapevole e non scusabile manipolazione della realtà, o meglio delle
parole altrui.
La terribile invocazione dei pieni poteri è la seguente: «Non sono nato per
scaldare le poltrone. Chiedo agli italiani, se ne hanno voglia, di darmi pieni
poteri. Siamo in democrazia, chi sceglie Salvini sa cosa sceglie».
Credo che
chiunque non sia accecato dall’odio o dall’ideologia sa riconoscere, in una
dichiarazione del genere, quel che è sempre stato il sogno irrealizzato di
tutti i grandi partiti, o meglio di tutti i partiti di maggioranza relativa: avere
il 51% dei seggi parlamentari, per poter realizzare il programma su cui hanno
chiesto il voto ai cittadini.
Era stato il
sogno della Dc di De Gasperi (ai tempi della cosiddetta legge truffa: 1953), è
stato il sogno di Berlusconi, quando i “cespugli” del centro-destra gli
impedivano di attuare la “rivoluzione liberale” promessa. Ma è stato anche il
sogno del Pd, quando Veltroni parlava di «vocazione maggioritaria» e sognava
una legge elettorale capace di individuare un vincitore. Ed è stato pure il sogno
di Renzi, quando guidava un partito del 41%, e diceva che non importava quale
legge elettorale si fosse scelta, purché la sera delle elezioni si sapesse chi
aveva vinto.
Perché dunque
quel che tanti leader avevano chiesto non poteva essere chiesto da Salvini? Per
questa domanda ci sono una serie di risposte ideologiche pronte, precotte e
premasticate: perché Salvini ci avrebbe portati fuori dall’euro; perché Salvini
avrebbe aumentato l’Iva; perché Salvini avrebbe instaurato una dittatura, o una
quasi-dittatura (se no, perché temere i pieni poteri?).
Ma la risposta vera, secondo me, è
un’altra, ed è drammatica: la sinistra, il campo progressista, ancora oggi
(anno di grazia 2021) non ha raggiunto la maturità democratica. Che consiste nel trattare l’avversario politico come avversario, e non
come nemico della democrazia.
Nel considerare
se stessi come portatori di un progetto politico, anziché come depositari
esclusivi del bene comune.
Nella fiducia
di poter combattere gli avversari con la forza delle idee, anziché cercando
ogni volta di evitare il ricorso alle urne, quasi che noi progressisti, le
molte idee di Salvini che non condividiamo, non fossimo in grado di
sconfiggerle in campo aperto.
Ci aveva
provato un po’ Veltroni, a rispettare l’avversario, ma non ce l’ha fatta
nemmeno lui a cambiare il dna del Pd.
Anche per
responsabilità della cosiddetta società civile che – attraverso appelli,
girotondi e sardine varie – ha ritenuto di dover gridare al pericolo per la
democrazia ogni qualvolta all’orizzonte si è profilato il rischio che a vincere
non fossimo noi, i “sinceri democratici”, unici interpreti degli interessi
generali del Paese, unico presidio contro le tentazioni autoritarie della destra.
Ora lei, caro
Renzi, da qualche mese viene piagnucolando che quota 100 è una follia, il
reddito di cittadinanza un obbrobrio, l’azione del governo inesistente, i
progetti di utilizzo dei fondi europei imbarazzanti, l’economia allo sbando, la
gestione dell’epidemia catastrofica, lo stile di governo improntato a vanità e
spregio delle istituzioni. E mille altre cose ripete, per lo più sacrosante, e
per cui si è deciso ad aprire una crisi di governo.
Ma io le faccio
un’unica domanda: non lo sapeva, quando ha bussato alla porta di Zingaretti per
proporre il patto incestuoso con i Cinque Stelle, che così avrebbe dissolto in
un colpo solo il progetto da cui il Partito democratico era nato, e di cui lei
era diventato l’interprete più brillante e coraggioso?
Non so perché,
un anno e mezzo fa, lei si decise a ingoiare il rospo, e a ingoiarlo ancora
vivo e vegeto. Capisco che le sia rimasto sullo stomaco, e non l’abbia digerito
ancora oggi. Ma quando lei denuncia i limiti dell’azione di governo sta solo
constatando una verità ovvia, che pare stupire solo lei: i Cinque Stelle sono i Cinque Stelle, e quindi fanno i Cinque Stelle.
Come direbbe Gertrude Stein: una rosa è una rosa è una rosa è una rosa.
Che cosa si
aspettava? Che il Pd rieducasse i Cinque Stelle? Che nell’alleanza fra un
partito non ancora pienamente riformista come il Pd e un partito populista e
giustizialista come il partito di Grillo sarebbe stato il mite Zingaretti a
prevalere? O che bastasse Italia viva a rieducare entrambi?
La realtà,
temo, è che in Italia il sogno di una sinistra riformista - egualitaria e
modernizzatrice - è tramontato definitivamente. Lei, è il momento di prenderne
atto, a questo tramonto ha dato un contributo significativo. Ed è tristemente
emblematico che i giorni di questa crisi, che hanno visto il trionfo del
trasformismo e l’umiliazione di quel che resta del riformismo progressista,
siano gli stessi in cui Emanuele Macaluso, il più coerente e sincero dei
riformisti, ci ha lasciato per sempre. Quasi a segnare, con questa coincidenza
di tempi, il passaggio di testimone fra due mondi e due epoche.
Peccato. Perché
quel sogno aveva un senso, e alcuni di noi ci avevano creduto e lavorato. Ora
tutto è più difficile, e addolora il fatto che a seppellire quel sogno sia
stato proprio chi, di quel sogno, era stato l’ultimo e più incisivo interprete.
https://www.ilmessaggero.it/editoriali/primopiano/matteo_renzi_luca_ricolfi_lettera-5716112.html