Vent'anni di scontro, una guerra tra due
culture che è arrivata (quasi) al culmine. La parabola di Trump, la leadership
di oggi e domani della Red Nation, il racconto dell'obamismo e gli omissis
sulla sconfitta del 2016. La storia può ripetersi, ma non torna mai indietroCAPITOL HILL
Che succede? Donald Trump ha concesso (a modo suo, ma
lo ha fatto) la vittoria a Joe Biden, parlato di "transizione
ordinata", del fatto che "sarà una nuova amministrazione", della
necessità di una "rappacificazione" del paese. Tutto bene? No, perché
la rivolta di Washington brucia e tra i dem non sembra essere chiaro che
l'America non è solo quella in progress, c'è un altro paese che non si può
cancellare con un colpo di spugna, il tasto reset nella storia non esiste. E
c'è un'America a mano armata che è bene non svegliare, perché non bisogna
trasformare la secessione ideale (che c'è, enorme) in una vera guerra di
secessione.
Trump ha sopravvalutato se stesso e sottovalutato la massa, ma di quell'America
che non vota i democratici resta (per ora, poi vedremo) il leader, basta
guardare i sondaggi fatti a caldo sui disordini di Washington, secondo YouGov
il 45% dei repubblicani li approva. E per l'85% degli elettori del Gop Trump
non deve essere rimosso. Sono numeri che dovrebbero indurre qualche riflessione
sulla composizione del quadro americano, sulla sua complessità, sulla reazione
degli elettori repubblicani, sulla distanza che separa due mondi paralleli che
fanno parte della stessa nazione, ammesso che esista, la nazione.
È un memento per Joe Biden (che pare sia saggiamente contrario all'ipotesi
di usare il 25esimo emendamento), consumare vendette quando hai il paese
spaccato in due, con un clima politico altamente infiammabile, è un errore da
non commettere.
Trump ha un progetto politico? Finché non sono partiti i petardi
dentro Capitol Hill, c'era. Il suo discorso era una rottura netta con
l'establishment del Gop, ora è consumata del tutto, il partito a Washington è
di Mike Pence e Mitch McConnell, ma nel paese no, la "Red Nation" è
trumpiana. È una realtà di cui i commentatori della domenica non prendono atto,
perciò continuano a perserverare nell'errore di considerare chiuso un capitolo
che è aperto. Il domani nessuno lo conosce, ma sul presente abbiamo fatti
concreti che sono macigni. C'era chi pensava che la pandemia avesse
definitivamente spazzato Trump, senza comprendere che quella storia non è la
figura di The Donald, ma è l'America nella sua essenza, il suo travaglio
interiore, la sua ascesa e caduta, è un ciclo storico in evoluzione che
continua a emettere segnali, per chi li vuole cogliere, basta accendere il
radar.
Il partito di Trump ci sarà? Questa è la domanda che aleggia nella politica americana. Ieri sera Trump ha dato un appuntamento ai suoi elettori: "Ai miei meravigliosi sostenitori: so che siete delusi ma voglio che sappiate che il nostro incredibile viaggio è appena iniziato". Chiede alla "Red Nation" che non si sente rappresentata dal Grand Old Party di continuare a seguirlo. Significativo in questo senso èun passaggio della nota di Kellyanne Conway sulla leadership di Turmp quando parla del presidente come capo "di un movimento e di un partito". Prima il movimento - non a caso - e poi il partito. Conway è la stratega della campagna vittoriosa di Trump nel 2016, fu lei a disegnare il suo percorso verso la Casa Bianca
Il 2021 è partito con la guerra incivile americana.
Le immagini della rivolta di Washington non sono il The End di uno scontro, non
stanno scorrendo i titoli di coda, è solo il picco sismografico di un conflitto
in corso, sono le due Americhe in rotta di collisione. Cosa accadrà? Proviamo
a riordinare il caos.
Donald Trump ha
fatto la cosa sbagliata agitando la folla, l'ha caricata a molla e questa
naturalmente è andata alla conquista di Capitol Hill. Sono cose che di solito
finiscono male, anche perché Trump non è Lenin che assalta il Palazzo d'Inverno
quasi senza sparare un colpo di cannone. Voleva mettere all'angolo i
repubblicani che lo hanno tradito, è finito per cascare nella buca che ha
scavato con le sue mani, un classico.
Joe Biden ha fatto la cosa giusta quando ha chiesto a Trump di
andare in tv per fermare la folla, su questo dettaglio della giornata si sono
soffermati in pochi e invece è un fatto importante. Biden si è mostrato fermo e
calmo. La tregua si fa con il nemico. E Trump, pur senza mai fare retromarcia
sui brogli, ha invitato i manifestanti a andare a casa.
La richiesta di Biden è
stata un passaggio di realismo, la presa d'atto che la leadership di Trump
sulla "Red Nation" è qualcosa con cui bisogna fare i conti. Non si
elimina per decreto presidenziale. Ventiquattro ore dopo, il pragmatismo è
evaporato dalla casa dei democratici e Nancy Pelosi ha chiesto la
rimozione di Trump dalla presidenza in base al 25esimo emendamento. Non è una
grande idea, perché in un momento in cui c'è bisogno di sangue freddo, si
alimenta il conflitto: Trump è uomo sopra e sotto le righe, ma pensare alla sua
defenestrazione è rischioso, perché non è un presidente per caso, è stato
eletto nel 2016 con un risultato sorprendente, ha vinto dove regnavano i
democratici, nel 2020 ha perso, ma è il presidente in carica più votato della
storia con oltre 73 milioni di voti. Rimuovere Trump prima del 20 gennaio
significa dare fuoco alle polveri, aprire la porta al rischio di una guerra
civile.
Parte dei dem e dell'establishment sembra non aver compreso - al pari dei molti intelligenti a prescindere che conoscono solo l'America in cartolina - che il problema non finisce con The Donald, perché è in corso la guerra dei due mondi, da una parte i conservatori e dall'altra i progressisti, in mezzo, milioni di proiettili, la desolazione degli Stati DisUniti d'America, un paese a mano armata e in pieno sgretolamento e smarrimento. Un declino che va avanti da almeno vent'anni. Non è una semplice battaglia politica, è qualcosa di più profondo, una guerra tra due culture che è arrivata (quasi) al culmine.
Nel 2000 George W. Bush entrò alla Casa Bianca grazie a una decisione della Corte Suprema sul voto della Florida. Allora furono i democratici a contestare le elezioni, chiedere il riconteggio, agitare lo spettro dei brogli. L'intervento della Corte Suprema mise fine allo stallo, pose il necessario sigillo istituzionale (cosa che non è successa oggi e invece era necessaria per assicurare la pax politica, la parola di un'autorità riconosciuta da tutti), permise alla vita istituzionale di fare il suo corso. Era solo il primo gong, la società americana stava accumulando tossine letali. Pochi mesi dopo, l'11 settembre 2001, l'America finì sotto attacco nel suo territorio per la seconda volta nella storia, da Pearl Harbor alle Torri Gemelle, la Fortezza violata. Bush rispose con due guerre, l'invasione dell'Afghanistan (2001) e la campagna in Iraq (2003).
Secondo il Watson Institute della Brown
University fino al novembre del 2018 i conflitti post 9/11 hanno causato mezzo
milione di morti (tra cui 7000 militari e 7,820 contractors americani) e 53,700
soldati e marinai feriti, molti dei quali mutilati; il costo delle campagne
miliari è stato pari 6,400 miliardi di dollari, che con gli interessi salgono a
8 trilioni di dollari entro il 2050. Uno shock profondo. Fare i conti con il
senno di poi è facile, ma la storia è il prodotto di scelte fatte giorno dopo
giorno e quell'America era sotto attacco.
Mentre le truppe erano con i "boots on the
ground" in paesi lontani di cui l'americano medio ignora la
posizione sulla mappa, gli Stati Uniti stavano per entrare in un territorio
nuovo/vecchio, quello della crisi finanziaria dei mutui subprime che a sua
volta avrebbe fatto (ri)emergere il "forgotten man", l'uomo
dimenticato, per la prima volta evocato dal presidente Franklin Delano Roosevelt
durante gli anni terribili della Grande Depressione. Fu così che le elezioni
del 2007 furono vinte da un uomo che pronunciava le parole "Hope" e "Change",
speranza e cambiamento, Barack Obama, il primo presidente nero della storia
americana.
Fu una svolta, ma senza gloria. Obama rimise in piedi l'industria e la finanza con il lavoro di Ben Bernanke alla Federal Reserve, salvò la "Motor City", Detroit, dal fallimento, ma le contraddizioni del Made in America altrove e non in patria, la mancanza di lavoro e reddito, piegarono anche la sua presidenza e nel 2016, dopo 8 anni di regno obamiano, di retorica sul "noi e loro", una politica estera fallimentare, arrivò lui, Donald Trump. Otto anni di Obama e poi il phonato di Manhattan. È un dato politico sul quale non si è mai riflettuto abbastanza, una presidenza con uno storytelling tutto in gloria e poi arriva lui, The Donald. Sono stati commessi degli errori? Si apre una voragine di omissis nella cronaca, ma la storia parla. Oggi c'è Biden e il discorso pubblico dei dem riprende come se nulla fosse successo. La storia forse si ripete, ma non torna mai indietro.
Donald Trump in quattro anni di presidenza ha sempre schivato la guerra, una scelta precisa, quella di non mandare i soldati americani a morire per cause che questa America non considera più il centro della sua agenda, ma nel momento in cui era all'apice della sua storia (i migliori dati sull'occupazione dai tempi del Vietnam) ha trovato sulla soglia della Casa Bianca il coronavirus e una sconfitta (in)attesa. Così, in una sera gelida d'inverno, Trump si è improvvisato rivoluzionario per caso. E la rivoluzione, come sempre accade, se lo è mangiato. Sono ore delicatissime, il sonno della ragione genera mostri, speriamo che non si mangi anche l'America.
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