Trump non è la causa della polarizzazione e della radicalizzazione della società e della politica americane, è un prodotto delle stesse.
Rodolfo Casadei
Non c’è dubbio che dopo quello che è successo il 6 gennaio all’esterno e soprattutto all’interno dei locali di Capitol Hill a Donald Trump s’attaglia perfettamente la figura dell’apprendista stregone. Il presidente uscente ha evocato i più incontrollabili di tutti gli spiriti politici – quelli dell’insurrezione – e come era fatale che avvenisse non li ha saputi padroneggiare. La strategia di Trump all’indomani del risultato delle presidenziali è sempre stata chiara per chi la voleva intendere: delegittimare l’avversario che lo aveva sconfitto di misura alle elezioni accusando “il sistema” di avere
organizzato brogli su vasta scala; in questo modo poteva lustrare le sue credenziali di avversario del sistema, che gli avevano consentito di uscire inatteso vincitore quattro anni fa, con quelle di vittima del sistema, che non gli aveva perdonato di averlo sfidato e ridimensionato da presidente.Il tutto in
vista delle primarie per la nomination repubblicana alle presidenziali del
2024, quando l’ex presidente potrà dire agli americani: «Il Partito repubblicano non ha saputo appoggiarmi quando mi è stata
rubata la vittoria alle presidenziali, e così avete avuto quattro anni di
socialismo, radicalismo di sinistra, strapotere del Gafa (Google, Apple,
Facebook e Amazon) e razzismo alla rovescia con la benedizione del corrotto
Sleepy Joe; riprendiamoci l’America, cacciamo gli usurpatori».
L’autogol
Che i brogli elettorali ci
siano stati o non ci siano stati, e che peso abbiano eventualmente avuto sul
risultato finale, è assolutamente secondario: Trump ha vinto nel 2016 presentandosi come candidato antisistema, e
in quel ruolo continuerà a fare politica perché è l’unico che gli offre
prospettive di successo in una società culturalmente, politicamente ed
economicamente polarizzata come sono gli Stati Uniti di oggi. Questo implica la
delegittimazione radicale dell’avversario.
La cosa però è sfuggita di mano, e quello
che doveva essere il finale della puntata accompagnato da un minaccioso
“continua”, cioè Trump che dice «sarà una transizione ordinata, ma confermo che
le elezioni mi sono state rubate e per i prossimi quattro anni mi batterò come
uno che è stato vittima di un golpe», si è trasformato in un autogol: a essere
accusato di tentato golpe adesso sono Trump e i suoi sostenitori. Palesemente
quello del 6 gennaio non è stato un tentativo di golpe, ci vuole una tipica
malafede settaria per sostenerlo, ma la lotta politica funziona così: se sbagli
mossa vieni attaccato ma soprattutto demonizzato al di là dei fatti in sé.
Delegittimare
Trump
Chi si scandalizza esclusivamente per il gioco pesante di Trump che punta tutto sulla delegittimazione degli avversari, e così facendo mette a repentaglio le istituzioni come tali – come ha plasticamente mostrato l’assalto vandalistico a Capitol Hill – però non è obiettivo. Al gioco delle delegittimazione dell’avversario hanno partecipato entusiasticamente in questi ultimi quattro anni anche i democratici e i loro sostenitori nelle istituzioni di garanzia. Per tutta la durata dell’amministrazione si sono succeduti tentativi di impeachment fondati su teoremi inconsistenti come il Russiagate che non avevano nessuna possibilità di andare in porto, stante la maggioranza repubblicana al Senato, ma che avevano il solo scopo di delegittimare il presidente in carica.
Il
gesto della presidente democratica della Camera Nancy Pelosi che strappa in
diretta televisiva una copia del discorso dell’Unione che il capo dello Stato
stava leggendo davanti al Congresso equivale per carica eversiva ai tweet con
cui Trump invitava i suoi sostenitori a «fermare il furto» recandosi in massa a
Washington il 6 gennaio per intralciare la proclamazione di Biden.
Un prodotto
della polarizzazione
Lo hanno
scritto e spiegato non da ieri ma da anni osservatori qualificati della realtà
Usa come Federico Rampini e Mattia Ferraresi: Trump non è la causa della polarizzazione e della radicalizzazione
della società e della politica americane, è un prodotto delle stesse. Radicalizzazione che è senz’altro
ideologica, ma soprattutto socio-economica. L’ideologia, come ha spiegato per
primo Karl Marx, è razionalizzazione di interessi materiali, veste ideale della
mera lotta per accaparrarsi risorse e potere. Negli Stati Uniti, paese di
grandi disuguaglianze economiche e già parecchio indebitato sia a livello
pubblico che a livello privato (64 mila miliardi di dollari, metà pubblici e
metà privati, più di tre volte il Pil nazionale), è lotta senza quartiere per accedere
alle decrescenti risorse disponibili.
Come Blm e
Antifa
Le categorie della politica identitaria
hanno sostituito quelle della lotta di classe come strumenti di rivendicazione. E
questo significa che gli avversari politici irriducibili appartengono in realtà
allo stesso universo culturale: quello post-nazionale e dello sradicamento da
globalizzazione. Hai un bel agitare la bandiera a stelle e strisce e un
cartello con su scritto “Rifacciamo grande l’America” (o addirittura
semplicemente “Rifacciamo l’America”, come c’era scritto in alcuni), ma se
vandalizzi uno dei templi della libertà americana com’è la sede del Senato, non
sei per niente diverso dai Black Lives Matter (Blm) e dagli Antifa che
vandalizzano o fanno rimuovere le statue dei padri della patria: George Washington, Andrew Jackson, Thomas Jefferson, Ulysses Grant, F.D Roosevelt,
addirittura Abramo Lincoln!
Se fra i
leader della protesta c’è un signore vestito da sciamano navajo evidentemente
non siamo davanti a difensori della tradizione Wasp, a patrioti da Tea Party,
così come se fai rimuovere una statua di Lincoln, commissionata a suo tempo da
schiavi emancipati, perché consideri inaccettabile l’iconografia
dell’afroamericano inginocchiato che sta alzandosi in piedi davanti al
presidente che lo ha liberato, anche se ti definisci Blm dimostri che non ti
importa affatto delle vite degli afroamericani e dei loro diritti civili,
perché calpesti la memoria dei tuoi antenati che in quel monumento si
riconobbero. In entrambi i casi risalta la
fine del patriottismo americano, la perdita della memoria storica, la riduzione
della vita sociale a lotta per le risorse materiali.
Biden e
Harris
Chi crede che un’amministrazione
Biden-Harris sarà meno pericolosa di quella di Donald Trump per la democrazia e
la libertà americane, e quindi per la causa della democrazia e della libertà
nel mondo, probabilmente sbaglia. Le prime decisioni allarmano. La scelta di
collaboratori e pubblici ufficiali sulla base del sesso e del background etnico
anziché su quella della competenza dimostrata, il pelo lisciato ai Blm
presentati come vittime perché trattati dalla polizia diversamente dai
sostenitori di Trump, e soprattutto la prospettiva di una riforma della Corte
suprema che aumenterebbe il numero dei giudici per permettere a Biden/Harris di
nominare personalità a loro ideologicamente affini e ribaltare l’attuale
maggioranza conservatrice, fanno temere
un neo-totalitarismo liberal ben più illiberale del populismo trumpiano.
Foto Ansa
TEMPI 9
gennaio 2021
Nessun commento:
Posta un commento