IL SUSSIDIARIO
Trump ha responsabilità gravissime per
l’assalto a Washington. Ma lui è sempre stato l’altra faccia della medaglia
della visione liberal, altrettanto estrema e facinorosa
Non c’era per Donald Trump peggior modo per terminare la sua presidenza.
Deve essersene accorto pure lui, dato che nelle ultime ore, pur ribadendo le
sue convinzioni, ha preso le distanze dagli atti di violenza. «Non sono
d’accordo, ma ci sarà una transizione ordinata. È la fine del più grande
mandato presidenziale della storia, ma è solo l’inizio della nostra lotta per
fare l’America di nuovo grande. Ho sempre detto che continueremo la nostra
lotta per assicurare che solo i voti legali contino». Il “golpe” dei suoi
sostenitori – come scrivono con enfasi i giornali italiani – non è riuscito, ma
ha lasciato sul selciato quattro morti. Una vicenda, qualunque sia
l’angolazione da cui la si guardi, gravissima e di cui il presidente Trump
porta una tremenda responsabilità.
Il limite di Trump
Di certo la sua presidenza sarà ricordata per quel che sta accadendo in
questi giorni, e sarebbe un errore: non solo perché alcune sue azioni
meriterebbero un giudizio più sereno ed equidistante (l’opposizione alla Cina,
le politiche in favore della vita, per dirne un paio), ma soprattutto perché –
ancora una volta – la retorica liberal proverà a
presentarci il tycoon come un’anomalia del sistema e non, invece, come l’altra
faccia della medaglia, la reazione al “sistema”. Una reazione che è la risposta “di pancia” ad un’agenda progressista
che vuole costruire un uomo nuovo, anche con metodi violenti e altrettanto
antidemocratici, e a cui la metà degli americani si sono ribellati,
vedendo in Trump l’unico baluardo contro un mondo percepito come ingiusto e soffocante.
Il limite dell'”alternativa Trump” è sempre stato questo: essere pura reazione,
dunque inevitabilmente disordinata e fegatosa, e incapace di incarnare valori e
criteri davvero diversi a quelli a cui si oppone.
America strappata
In queste ore, due osservatori hanno colto meglio di altri la questione. Il
primo è Freddy Gray sullo Spectator in un commento in cui ha messo in evidenza
che le difficoltà nella “la-la-land democratica” non sono finite. Il Senato
resta spaccato a metà, così come lo è il paese, così come lo è il partito
democratico (e pure il partito repubblicano). Il rischio è che, forte di una maggioranza che può imporsi di un
voto al Senato e che può votare altri giudici alla Corte Suprema per ribaltarne
la composizione, i democratici impongano
la loro agenda radicale. Così l’America si ritrova divisa più che mai,
potremmo dire «strappata», riprendendo il titolo di copertina di Tempi di ottobre. In quel reportage Massimiliano Herber,
corrispondente dagli Stati Uniti, aveva raccontato sulle nostre pagine il suo
viaggio a Washington, Ohio, Philadelphia, Michigan, Wisconsin. Immergersi nella
pancia del paese significava scoprire una società lacerata come non mai,
affranta e sempre meno convinta di poter trovare nella politica un motivo di
unità.
Il presidente (degli altri) è un impostore
Il secondo articolo che aiuta a non fermarsi alla crosta dell’indignazione
emotiva, ma indaga le radici profonde di questa divisione, l’ha scritto Mario Sechi sull’agenzia Agi. Scrive Sechi che «Trump si è illuso
di poter dominare la massa, ma se tu la inciti a combattere, questa bolla
informe e in movimento ti prende alla lettera. E va a combattere, con
l’irrazionalità che scorre nelle vene». L’uomo che voleva dominare le
masse, è finito per esserne dominato. È sempre stato il “metodo Trump”: aizzare
le folle, cercare lo scontro, dividere. Quel che è importante capire è che il
“metodo democratico” non è mai stato molto diverso da questo. Un secondo dopo
che fu eletto, i liberal chiesero l’impeachment per Trump e sono andati avanti
per tutta la presidenza a sobillare le masse col russiagate. I loro sostenitori
non sono arrivati coi forconi ai cancelli di Capitol Hill, ma il messaggio era
identico: il presidente eletto è un impostore.
Una crisi culturale prima che politica
Il problema, dunque, come nota sempre Sechi, è che «l’America è un
paese devastato da una crisi prima di tutto culturale e poi politica».
«La crisi è anche costituzionale,
ha un sottotesto che parla di secessione, di idee che emergono a ondate negli
Stati rossi e blu, oggi si parla di “Texit” per il Texas repubblicano, la
stella solitaria, ieri di “Calexit” per la California, il castello democratico
hi-tech raccontato da Michael Anton in “The States” come il prossimo modello
(da incubo) in fase di “esportazione” in tutti gli Stati Uniti d’America. Due
Americhe, due mondi che non si parlano più e non trovano ragioni per
andare avanti insieme. È un dramma titanico che non a caso tracima dalla
cronaca alle pagine di storia nel momento in cui la Cina corre verso il primato
globale. È il romanzo degli imperi che declinano e decollano».
In questo grande paese, sono arrivate a fronteggiarsi due anime che non si
riconoscono. Anzi, cercano di cancellarsi: come gli sgherri trumpiani che
assaltano Capitol Hill, così gli agitati del Black Lives Matter cercano di
buttare giù le statue di Abramo Lincoln. C’è una cancel colture liberal e ce ne
è una trumpiana. In entrambi i casi, due posizioni radicali, demolitrici,
estreme.
Il mio capo è un influencer
Emerge così il limite della politica dei nostri giorni: essersi ridotta a
una faccenda di post su twitter. È un fenomeno rilevabile anche ai bordi
dell’impero, qui in Italia, per fare un esempio. Se il leader di un partito è
il suo miglior influencer, a seguirlo non saranno dei cittadini chiamati a
esprimersi sulle sue ricette politiche, ma dei follower, dei seguaci, pronti a
prendere le sue parti qualunque cosa dica o faccia. E, nel peggiore dei casi,
come sta accadendo a Washington, a tentare la scalata alle mura del Campidoglio
per ripristinare non la democrazia, ma la “loro” democrazia.
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