Peppino Zola
Vale la pena annacquare la certezza della fede con la
speranza di “piacere” di più al mondo e fargli così piacere la Chiesa? Pia
illusione
Caro direttore, in questi due giorni, mi è capitato di
partecipare a due fatti che mi hanno molto provocato. Il primo è stato quello
di assistere, via Youtube, all’incontro
organizzato da Esserci sul tema del rapporto tra salute e salvezza, a cui
hanno partecipato monsignor Corrado Sanguineti, vescovo di Pavia, e Giancarlo
Cesana. Cesana ha descritto l’evoluzione storico-scientifica della medicina
riguardo alla valutazione dell’uomo di fronte alla malattia, sottolineando come
si sia passati dalla considerazione dell’uomo nella sua unità fisica e
spirituale ad un approccio più settoriale e “particolare”. Sanguineti ha affrontato il tema dal punto di vista della
“totalità” cattolica, che, proprio perché ama la vita (dono di Dio), dà un
senso anche alla malattia ed alla morte.
Sono uscito
da questo incontro con la coscienza che noi cristiani stiamo rischiando di
ridurci a fare “l’assistenza sociale” al prossimo, dimenticando che abbiamo il
dovere (dettatoci da Gesù stesso) di annunciare a tutti la vera speranza, che
può poggiare solo sulla proclamazione che Cristo è risorto. In effetti,
durante la presente pandemia, la nostra amata Chiesa, così mi pare, si è
preoccupata più di obbedire all’ordine civile e di ribadire solidarietà che di
dare speranza ai nostri fratelli uomini, mostrando a loro la certezza che non
tutto finisce con la fine fisica del nostro corpo. Ancora una volta, noi
cristiani abbiamo perso una grande occasione per evangelizzare in modo
integrale il nostro prossimo.
Poi, il giorno dopo, mi hanno segnalato quanto ha detto il filosofo Gianni Vattimo sul Corriere della Sera anni fa.
Riporto qui le sue parole:
«Voi cattolici
avete resistito impavidi per quasi due secoli all’assedio della modernità.
Avete ceduto proprio poco prima che il mondo vi desse ragione. Se tenevate duro
ancora per un po’, si sarebbe scoperto che gli “aggiornati”, i profeti del
futuro postmoderno eravate proprio voi, i conservatori. Peccato. Un consiglio
da laico: se proprio volete cambiare ancora, restaurate non riformate. È
tornando indietro, verso una tradizione che tutti vi invidiano e che avete
gettato via, che sarete più in sintonia con il mondo d’oggi, che uscirete
dall’insignificanza in cui siete finiti “aggiornandovi” in ritardo. Con quali
risultati poi? Chi avete convertito da quando avete cercato di rincorrerci
sulla strada sbagliata?».
Al di là
dell’analisi iniziale, sulla quale potremo discutere, due passaggi finali di
Vattimo mi hanno impressionato. Il primo
è quello che sottolinea come il tentativo dei cattolici di “aggiornarsi”
è avvenuto comunque in ritardo, quando i buoi erano già scappati.
Evidentemente, questo è stato il frutto di un terribile complesso di
inferiorità rispetto al mondo, complesso che nasce e si rafforza quando si ha
“vergogna di Cristo”. Troppi cristiani hanno dimenticato l’invito di San Paolo
ai Romani di non conformarsi “alla mentalità di questo secolo”. E questo per
paura del martirio, che in Occidente non ha il colore del sangue (almeno fino
ad ora), ma la conseguenza dell’emarginazione sociale, culturale e lavorativa,
quell’emarginazione che ha portato, ad esempio, il “mondo” a mettere sotto
silenzio uno dei più grandi romanzieri dello scorso secolo, nato 100 anni
fa, Eugenio
Corti , autore dell’immenso Il cavallo rosso. Per paura
di essere emarginati, i cattolici si sono autocondannati al silenzio.
L’altra annotazione impressionante fatta da Vattimo,
soprattutto se si considera la sua laicissima e polemica storia intellettuale e
personale, è quella con cui chiede a noi
cristiani quali siano i risultati prodotti da questo vergognoso abbandono della
nostra identità e della nostra storia e denuncia noi per non avere indotto
nessuna “conversione” con questo indebolimento della nostra fede.
Sorprendente che sia un “laico” a porsi questa
domanda, mentre vedo pochi (anzi pochissimi) nostri vescovi porsi la stessa
domanda. Vale la pena annacquare la certezza della nostra fede, con la speranza
di “piacere” di più al mondo, sperando così di fargli piacere la Chiesa fondata
da Cristo? Mi pare una pia (poco pia, a dire il vero) illusione. Personalmente, mi sono convertito perché ho incontrato un uomo, un prete
che con decisione mi ha parlato di Cristo in modo coinvolgente e integrale, mi
ha spiegato il significato delle verità cristiane che l’uomo moderno fa fatica
a capire, mi ha coinvolto in una entusiasmante vita comunitaria, mi ha guidato
nel vivere seriamente le dimensioni cristiane del cultura, della carità e della
missione. Mi ha spiegato il senso vero (e non quello laicista e protestante)
della tradizione cattolica. Se avessi incontrato un cristiano incerto e
sentimentale, mi sarei allontanato ancora di più dalla Chiesa. Invece, il Servo di Dio don Luigi Giussani
(questo è l’uomo di cui sto parlando), avendo una fede certa ed una tenera
carità, è riuscito a parlare alla modernità, usando parole nuove per annunciare
la verità vera e perenne della tradizione cristiana e, non a caso, ha visto
nascere e crescere intorno a sé un movimento di persone, deboli come tutti, ma
“ingenuamente baldanzosi” nell’affrontare a viso aperto (e lieto) le difficoltà
del tempo.
In questo periodo, continuo a pormi questa domanda: ma
perché la comunità cristiana, invece di farsi prendere dall’ossessione di dovere a tutti i costi “aggiornarsi”, non imita
i santi che lo Spirito manda e che indicano la strada da percorrere per
annunciare a tutti la buona novella? E di santi, in questo tempo, lo Spirito ne
ha mandati tanti. Perché, ad esempio, quando si fanno i piani pastorali, non si
va a “vedere” ciò che ha vissuto e detto e testimoniato un uomo come don
Giussani? Perché confinare al passato questa ed altre esperienze?
Esperienze che, come sembra chiedere persino Vattimo, hanno permesso allo
spirito di “convertire” molte persone. Perché tanti pastori continuano a
rifarsi a culture e metodi che sono stati proprio quelli che hanno allontanato
dal cristianesimo tante persone? Perché non fidarsi di più dei santi rispetto
alle proprie idee, che per di più si sono dimostrate fallimentari?
So di pormi domande drammatiche. Si tranquillizzino
tutti: so che le tenebre non prevarranno. Ma so anche che quando inizio a
pregare con le ore del giorno, la Chiesa mi fa dire: “Signore, vieni presto in
mio aiuto”. Vorrei estendere quel “presto” alla preoccupazione di tutti i
fratelli cristiani. La libera “conversione” a Cristo passa attraverso la nostra
responsabilità.
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