Louis Raphaël I Sako è il patriarca di Babilonia dei caldei. Dall’estate scorsa, quando lo Stato islamico
ha occupato parte dell’Iraq instaurandovi un califfato, Sako fa avanti e
indietro fra Baghdad e il Kurdistan, dove si reca in visita alle migliaia di profughi,
soprattutto cristiani e yazidi, costretti dall’armata terrorista a lasciare le
proprie case.
Nonostante le sofferenze, le difficoltà e tanta amarezza per le ingiustizie compiute contro di noi,
viviamo nella vera pace e ringraziamo Dio, che ci ha salvati da tutto questo
male che ci ha investito. I cristiani hanno perso tutto, ma hanno salvato la
cosa più importante: la fede. Insieme alla vita, perché le perdite umane sono
state pochissime.
Ringraziamo Dio per i tanti segni di speranza che ci ha mandato in questo
tempo. Anzitutto tutta questa solidarietà internazionale verso i cristiani. Non
solo la solidarietà e la carità delle Chiese, ma anche quella delle persone,
dei singoli individui. Sono cose che ci aiutano a perseverare e a sperare. Ma
ci sono anche tanti altri segni. Quest’anno abbiamo avuto dieci nuovi
seminaristi, che sono tanti per una Chiesa come la nostra che ha visto tante
emigrazioni negli ultimi anni; sono nati gruppi di preghiera e gruppi di lavoro
nelle parrocchie sorte per rispondere ai bisogni di questa emergenza nella
quale continuiamo a vivere.
Ringraziamo Dio anche per i tanti musulmani che sono venuti a scusarsi per
quello che è stato fatto dai fondamentalisti, che hanno chiesto perdono e hanno
portato aiuti ai cristiani in difficoltà.
Non tutto è nero nelle circostanze che stiamo vivendo, ci sono segni
luminosi che bisogna saper vedere. Noi speriamo e preghiamo che l’anno nuovo
porterà pace e stabilità per noi, ma non solo per noi: per tutti gli uomini del
mondo, a cominciare da questa regione del Medio Oriente.
Natale in mezzo ai rifugiati
Io penso alla Siria, allo Yemen, al Libano, alla Libia: noi cristiani non pensiamo solo ai cristiani, ma ad ogni persona umana, che ha il diritto di vivere nella libertà e nella dignità.
Io penso alla Siria, allo Yemen, al Libano, alla Libia: noi cristiani non pensiamo solo ai cristiani, ma ad ogni persona umana, che ha il diritto di vivere nella libertà e nella dignità.
Perciò ho chiesto a tutti i sacerdoti caldei di concludere l’anno con una
Messa per ringraziare Dio per tutte le grazie e per tutte le sofferenze che ci ha
dato. Perché non tutti, ma tanti fra di noi hanno saputo trasformare le
sofferenze in grazie. E ho chiesto anche di iniziare l’anno nuovo con una
Messa, per pregare che l’anno nuovo porti più pace e stabilità.
Nel mio viaggio nel nord del paese a metà di dicembre ho percepito quanto
grande sia la sofferenza della gente, quanto pesante la loro croce. Ho anche
incontrato il primo ministro curdo Nechirvan Barzani, che è molto vicino ai
profughi e che mi ha promesso di fare tutto quello che gli è possibile per
questa gente, di aiutarli a trovare lavoro e alloggi per le famiglie. Ha
chiesto alle scuole e alle università della regione di accogliere gli studenti
che arrivano da Mosul e dalle cittadine della Piana di Ninive. Ho trovato tutte
le chiese molto dinamiche nell’aiutare gli sfollati e nell’incoraggiarli a
rimanere e a sperare.
Ho visto quello che facevano per alleviare la sofferenza che vivono, anche
con attività come riunire e visitare le famiglie, mandare Babbo Natale a
visitare i bambini. Tutti lavorano intensamente. Perciò ho deciso che avrei
celebrato la Messa di Natale non a Baghdad, sede del patriarcato, ma in mezzo
ai profughi cristiani nel nord. Così ci siamo trovati in una grande
tenda-chiesa nei pressi di Ankawa, il quartiere a maggioranza cristiana della
città di Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno, dove si trova la
maggioranza dei rifugiati. Abbiamo celebrato la Messa di
Natale sotto a una tenda nel più grande campo di rifugiati
cristiani, insieme ai vescovi della regione e alla presenza delle autorità.
Quello che stiamo vivendo noi è l’equivalente della fuga in Egitto della
Sacra Famiglia. Noi viviamo queste figure bibliche nella nostra carne. E come
la Sacra Famiglia è tornata in Palestina, anche noi torneremo nella nostra
terra.
da Tempi, 5 gennaio 2015
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