mercoledì 14 gennaio 2015

UNA RELIGIONE CHE PREDICA LA PACE?

La verità S. I.

colloquio con Samir Khalil Samir a cura di Matteo Matzuzzi
in “Il Foglio” del 10 gennaio 2015

“Gli imam dicono che non bisogna confondere i terroristi con l’islam, che invece è una religione che predica la pace e la non violenza. Troppo facile così, troppo poco”, dice al Foglio padre Samir Khalil Samir, gesuita nato in Egitto, vissuto in Libano, professore all’Université Saint-Joseph di Beirut e al Pontificio istituto orientale di Roma, considerato uno dei massimi islamologi viventi.



“Non ci si può discolpare in questo modo e finché si sentirà ripetere da parte dei dotti musulmani il solito refrain, nulla cambierà”. Gli imam, per prima cosa, spiega il nostro interlocutore, “dovrebbero prendere le distanze da chi entra in una redazione di giornale con i fucili spianati, dicendo che quelli sono terroristi che vogliono riconquistare il mondo all’islam. Invece non lo fanno, non prendono atto che almeno l’ottanta per cento delle azioni terroristiche sul pianeta avviene in nome del Profeta”.
 La questione fondamentale è che “nel Corano c’è la violenza, a differenza del Vangelo.
Quando i musulmani conquistano la Terra Santa, passano a fil di spada gli infedeli”, è un dato di fatto. E’ qui che deve iniziare il lavoro degli imam, chiamati a “spiegare che una cosa è il testo scritto che nessuno vuole toccare, altra cosa è l’interpretazione di quelle frasi. Prendiamo l’Antico Testamento, che contiene passi d’una violenza inaudita”, aggiunge padre Samir: “La chiesa in duemila anni ha saputo insegnare come interpretare le Scritture, altrimenti saremmo ancora a prendere alla lettera i versetti sul Dio degli eserciti e i bambini gettati sulle rocce. Tutte le civiltà hanno conosciuto questa fase, ma l’hanno superata. L’islam no”.

Sono pochissimi, professori universitari intellettualmente cresciuti in occidente, coloro che hanno provato a contestualizzare ai tempi correnti il dettato coranico. Gli altri, la maggioranza, “non osano farlo”.

Quel che servirebbe da parte delle comunità musulmane, spiega padre Samir, è “una sana
autocritica, ma non la fanno, tacciono quando nel nome dell’islam viene commesso qualcosa contro gli altri. E allora è inutile dire che si sentono oppressi e inferiori. In parte è vero, ma che fanno per cambiare questa condizione? Nulla. Non è l’occidente che li ha messi in quella situazione, ma sono loro che ci si sono infilati, andando a rovinare la reputazione di tutti i musulmani che desiderano
solo vivere in pace con tutti”. Insomma, dice l’islamologo al Foglio, “non si può accettare che quanti vengano in occidente vogliano imporre il proprio sistema di regole. L’integrazione presuppone l’accettazione della cultura delle popolazioni ospitanti, l’adozione delle abitudini di quel popolo, anche diverse dalle proprie. Perché solo così quella gente sarà pronta ad accogliere e ad aiutare.

Il confronto faccia a faccia non serve a nulla, il dialogo vero presuppone la disponibilità sì ad ascoltare, ma anche ad adeguarsi all’altro”. Oggi, invece, “il dialogo consiste nei musulmani che per prima cosa ricordano di essere più di un miliardo e mezzo sul pianeta e che se si verifica qualche attentato è perché si trovano in condizioni sociali difficili. Ebbene, non è che i cinesi siano in condizioni molto migliori, eppure non tirano granate”. Invece, gli islamici non lo fanno, si chiudono in comunità ristrette e alimentano la paura. Cosa a quel punto ovvia, osserva Samir: “Troppi hanno commesso atti terroristici nel nome del dio islamico – per loro c’è solo ‘Allah’, non lo chiamano Dio neppure quando parlano in francese inglese o italiano – e l’immagine che l’islam da di sé è del tutto negativa. Si presenta come una religione bellicosa, aggressiva, arretrata. L’unica
soluzione è ammettere, da parte loro, che qualcosa non va nel proprio agire. Ma lo devono fare loro”.

Invece, reagiscono nel modo che s’è visto contro le vignette satiriche d’un settimanale: “La bomba nel turbante di Maometto? Che male c’è?”, dice padre Samir, che aggiunge: “All’epoca i miei interlocutori musulmani definivano ciò inaccettabile. Eppure loro rappresentano Allah con la spada. Hezbollah lo scrive addirittura come fosse un kalashnikov, così che chi lo guarda e non sa leggere l’arabo pensa che quel nome stia a indicare proprio l’arma”. Non si tratta di insultare il Profeta, chiarisce l’islamologo: “Sto solo dicendo che se uno non è d’accordo con una caricatura va da un giudice e si serve della legge di quel paese. Se la legge non sta bene, si è liberi di andarsene da quel paese.

Non si può arrivare al punto da sentirsi definire ‘empi’ in casa propria”.

Nessun commento:

Posta un commento