lunedì 13 febbraio 2017

LA CHIESA MEDIATICA



Negli ultimi giorni ho ripensato spesso a queste parole di don Luigi Giussani: «per incontrare la Chiesa io devo incontrare degli uomini, in un ambiente. Non esiste la possibilità di incontrare la Chiesa universale nella sua interezza, è un'immagine astratta: s'incontra la Chiesa nella sua emergenza locale e ambientale. E uno la incontra esattamente come possibilità di serietà critica, così che l'eventuale adesione - adesione grave perché da essa dipende tutto il significato dell'esistenza - possa essere totalmente ragionevole». (L.Giussani, Perché la chiesa. I. La pretesa permane, Milano 1990, p.31)

In effetti, quella descritta da don Giussani era, totalmente, l'esperienza  della chiesa che facevano i cristiani dei primi secoli e, in misura larghissima e preponderante, quella dei cristiani vissuti nei secoli successivi, almeno fino a cinquanta/sessanta anni fa. Per i cristiani, poniamo, di Corinto, di Efeso o di Antiochia nel I o nel II secolo, il cristianesimo era veramente solo «la Chiesa nella sua emergenza locale e ambientale»: certo, sapevano che c'erano altri cristiani “fino ai confini del mondo”, credevano di essere in comunione con loro come membra di un unico corpo di Cristo, ma l'esperienza della chiesa che avevano stava tutta nel rapporto diretto, concreto (e perciò, come nota acutamente don Giussani, anche “criticamente serio”) con uomini e donne che conoscevano personalmente e con cui si incontravano almeno una volta alla settimana. Volti reali, del mondo reale.
Anche nei secoli della cristianità, quando la chiesa cattolica aveva un'organizzazione molto più strutturata e capillare, ai cristiani non sarebbe neanche passato per l'anticamera del cervello che fosse possibile «incontrare la Chiesa universale nella sua interezza». A due semplici fedeli del XVII secolo come Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, tanto per dire, che cosa poteva mai importare che il papa regnante fosse Urbano VIII o qualcun altro? Forse ne sapevano il nome, ma di certo non ne conoscevano il volto e le parole. Persino il loro vescovo, Federigo Borromeo, diventa per loro una presenza concreta solo quando delle circostanze eccezionali glielo fanno incontrare. La chiesa è don Abbondio e la gente della parrocchia (e la ricerca di un carisma che aiuti a rendere quella presenza significativa e autorevole non va oltre Pescarenico: padre Cristoforo!).
Certo, le cose sono cambiate, dapprima lentamente e poi in modo sempre più veloce con l'andare dei tempi: forse  è stato Pio IX il primo papa con cui i fedeli di tutto il mondo hanno avuto un rapporto “mediatico” di devozione, il primo visto in fotografia (e le immagini del “papa prigioniero in Vaticano” entrarono nelle case di tanti buoni cattolici che si commossero per lui9; e il Vaticano I è stato il primo concilio di cui si sono occupati i giornali. Ma la vera svolta c'è stata a partire dal Vaticano II, un concilio in cui - come ha ricordato più volte Benedetto XVI - l'influenza dei mezzi di comunicazione di massa fu così forte ed invasiva, che si può parlare in realtà di due concili, quello reale e quello mediatico (che in molti casi ha finito per prevalere sull'altro). E da allora si è avviato un processo di mediatizzazione della vita della chiesa che non si è più fermato.
Penso che sia assolutamente necessario riflettere in modo approfondito su questo aspetto della presente situazione, in cui, diversamente da tutti i venti secoli precedenti,  per un sempre maggior numero di persone il rapporto con la chiesa è diventato prevalentemente (quando non esclusivamente) mediatico. In che cosa consiste oggi, per la maggioranza delle persone, la visibilità della chiesa? Molto di più nel papa, che si vede dappertutto, che fa notizia, di cui si parla continuamente; oppure in altri personaggi ecclesiastici o in “eventi” di massa che però sono sempre pubblicizzati dai media; oppure nel “discorso pubblico” sulla chiesa dilagante in rete e sui giornali in mille siti. Molto di meno nell'esperienza diretta di un incontro nella vita quotidiana, sul posto di lavoro o lì dove si abita.
L'illusione di poter incontrare «la Chiesa universale nella sua interezza» è perciò molto più diffusa (e pericolosa) oggi di un tempo (anche rispetto a quando don Giussani scriveva quelle parole, ormai trent'anni fa). E le conseguenze teologiche di questo cambiamento di prospettiva credo che non siano state ancora valutate adeguatamente.

Esiste, per esempio, un serio problema con il “papato mediatico”: germinato probabilmente già con Pio XII, aggravatosi con Giovanni XXIII, ingigantitosi con Giovanni Paolo II e oggi deflagrato con Francesco. Quello che bisognerebbe capire, è che non è un problema esterno, dei media: i media ne sono la condizione e la concausa, ma il problema è della chiesa. Non è un problema di comunicazione, è un problema di concezione.

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