Lettera aperta di Mons. Luigi Negri a don Federico Picchetto
mi sono deciso a scriverti alcune righe dopo aver letto il solito pezzo pubblicato in questi giorni sul “Sussidiario’’, «La sfida della post-verità alla bellezza del vangelo». (leggi in fondo al post)
Dico ‘‘il solito pezzo’’ perché credo di averlo letto più o meno con le stesse frasi, la stessa modulazione di forma almeno 7/8 volte. Sembra che tu abbia soltanto questo da dire e mi pare, decisamente, amico mio, un po’ poco.
Sembra incredibile che una persona intelligente come tu sei possa riproporre questa revisione della storia della Chiesa immessa nella storia dell’umanità come una cosa nuova ed approfondita
Dunque, c’è il pericolo terribile (per quel che capisco) che il Cristianesimo possa legarsi strutturalmente a forme di vita, di cultura, di iniziative, di strutture, di opere, perdendo la sua originaria purezza. Il Cristianesimo, per sua natura, dici tu, deve essere puro, cioè non deve confondersi, non deve contattare quella realtà di facce, di uomini, di vita, che tu proclami essere il contesto vero della Chiesa.
La Chiesa, dunque, «ai tempi di Costantino», (ma ti ho visto una volta in un tuo articolo retrodatare l’inizio dell’errore forse già all’epoca degli Apostoli) quando si stringe con l’ellenismo rinunzia alla sua purità originaria, per collegarsi ad una forma culturale contingente, storica, e perciò sostanzialmente negativa.
Racconti una storia di tradimenti - che non sono mai documentati - dall’ellenizzazione del cristianesimo in poi. Come se il Cristianesimo, quando si collega ad una forma di vita (per carità, non si può dire che formi una forma di vita, ma si collega) tradisse la sua originaria purezza.
E poi troviamo questa incredibile storia della Chiesa moderna, dove hanno sbagliato tutti; abbiamo sbagliato ai tempi dell’800, abbiamo sbagliato con la Prima Repubblica, con la Seconda Repubblica. Abbiamo sbagliato sempre e comunque perché abbiamo compromesso l’originaria purezza.
Amico mio, ma non ti rendi conto che «l’originaria purezza» è un’espressione assolutamente ideologica che non ha nessuna consistenza?! La Chiesa è nel mondo! Il problema della Chiesa non è che si possa tirar fuori dal mondo, condannandosi così all’aridità e all’estinzione; il problema unico dello stare nel mondo è quello che ci ha insegnato Giussani: è il metodo con cui si è presenti.
Si è presenti per un annuncio da portare, per un mondo nuovo da creare nel mondo di tutti.
Si è presenti, appunto, per far passare dentro l’esperienza dell’umanità (che peraltro sarebbe inconsistente, incredibilmente debole, incapace di qualsiasi autentica definizione), per far passare dentro il mondo corrotto dell’uomo e della società il mondo di Dio, che lentamente, inesorabilmente, gradualmente, cambia la vita dell’uomo e quindi la storia.
È vero che il Cristianesimo deve essere raccontato, ma deciditi una buona volta, caro Pichetto, a raccontarlo, deciditi a dire cos’è il Cristianesimo nella tua vita e nella vita dei tuoi amici.
Non fermarti. a dire che non si può tradurlo in formule, in idee, in ideologie, in contenuti astratti.
Se è un’esperienza mettila a contatto con la vita dei tuoi fratelli, - come io da tanti anni cerco di mettere a contatto la mia vita, segnata dalla fede, con quella di tutti gli uomini che mi passano accanto e per questo sento fratelli -.
Il mio personale consiglio (e spero che tu, almeno in parte, lo accolga) è che non bisogna correre dietro all’ideologia della purezza assoluta, perché la Chiesa è nel mondo.
Don Giussani ci ha insegnato, da par suo, che l’avvenimento di Cristo termina in un popolo, in una comunità: questa comunità è nel mondo e per il mondo, perché comunica al mondo quella vita nuova che il mondo desidera e non può darsi.
È così radicalmente semplice tutto questo!
C’è un gruppetto di amici intorno a te che si sono eletti la responsabilità di denunciare tutti gli errori, mai documentati, mai giustificati.
Questa Chiesa che ha sbagliato da Costantino (e forse prima) fino ad oggi non è mai messa di fronte a delle prove, a delle prove concrete, reali; vi siete assunti la responsabilità di salvare questo Cristianesimo senza faccia, senza storia, senza capacità di rischio, senza capacità anche di errori. Ma attenzione: un Cristianesimo fuori dal tempo e dallo spazio e dalla storia semplicemente non esiste!
Per questo non puoi raccontarlo, caro don Federico, perché un Cristianesimo così si può continuamente dire che deve essere raccontato, ma poi, venuto il momento, non c’è niente da raccontare.
Ecco, forse le mie osservazioni sono sostanzialmente semplici, ma di questa semplicità che ha reso faticosamente lieta la mia vita e me l’ha fatta vivere per Cristo e per i fratelli.
+ Luigi Negri, Arcivescovo di Ferrara-Comacchio
La sfida
della post-verità alla bellezza del vangelo
Federico Pichetto
domenica 29 gennaio
2017
Dopo essere stata
definita la "parola" del 2016, il termine "post-verità" ha
attraversato le schermaglie e i dibattiti culturali di questo inizio anno e si
è imposto come tema nell'agenda della politica e della società. Il racconto mendace
della verità, secondo una delle tante definizioni del vocabolo, sarebbe infatti
diventato superiore alla verità stessa fino a sostituirla. "Non esistono
più fatti, ma solo interpretazioni" asseriva già più di un secolo fa
Nietzsche, "ripetete una bugia migliaia di volte e diventerà la
verità" rimarcava fieramente il tetro ministro della propaganda di Hitler
negli anni Trenta del novecento.
La post-verità, a ben
vedere, non è un fenomeno nuovo della nostra epoca, legato ai social, ma esiste
da sempre. Nuovo, semmai, è il contesto in cui esso si ripropone: la rete ha
una forza di amplificazione inimmaginabile fino a neppure quindici anni fa.
Eppure tutto questo potrebbe non essere così negativo come appare. C'è una
vicenda poco conosciuta nel cristianesimo delle origini, su cui studiosi come
John Rist hanno fatto luce, che vede la prima comunità cristiana esprimere i
concetti della propria fede — tra la fine del I secolo e l'inizio del II —
attraverso le categorie della filosofia stoica, quelle stesse categorie che,
tramontato l'Impero di Domiziano, saranno fatte proprie da Traiano, Adriano e
Marco Aurelio con lo scopo di dare una forte identità culturale ad un
"dominio ormai universale" e riassorbire la nascente minaccia dei
"Nazareni" rubandole lo stesso linguaggio e la stessa piattaforma
culturale.
È a questo punto — e qui
sta il particolare interessante — che gli gnostici, e i padri apologisti del II
secolo, a partire dal Teeteto di Platone decidono di non farsi risucchiare
dalla mentalità dominante e abbracciano alcuni elementi del platonismo, ovvero
il mito — la capacità di "raccontare la Verità" — e il logos —
un concetto della filosofia antica già eretto dall'evangelista Giovanni a
protagonista del cristianesimo. Da questo momento in poi nasce la teologia come
racconto della "storia del Logos", come racconto della storia del
Verbo di Dio. Senza fuorviare il lettore con ulteriori particolari tecnici
quello che appare importante imparare da questa vicenda è che, fin dagli inizi
della riflessione cristiana, emerge che se il cristianesimo non vuole diventare
una fra le tante filosofie dell'Impero ha bisogno di essere raccontato, di
essere proposto come una Storia nella quale inserire la storia dei singoli. Non
c'è Verità autentica, insomma, che non abbia bisogno di una post-verità, di un
racconto, per divenire fruttuosa e capace di incidere nel tempo.
Quest'esigenza
intrinseca alla Verità, nell'epoca in cui le evidenze ultime della vita erano
solide, poteva tranquillamente essere bypassata. Oggi il mutato quadro
culturale rende invece nuovamente fondamentale la nostra capacità di raccontare
il cristianesimo, di testimoniarlo rendendone ragione.
Si è aperta una fase
della storia dell'occidente in cui il cristianesimo è costretto a tornare alla
sua ultima essenza, la testimonianza appunto, ritrovando la propria capacità di
essere "storia", storia non di concetti o di opinioni, ma di carne,
di facce, di volti; storia sociologicamente identificabile, portatrice di una
forza dall'Alto e resa presente attraverso l'umanità particolare di
alcuni.
Finché nel mondo
cristiano europeo si punterà su una dialettica culturale, cercando di difendere
i bastioni del "bel tempo che fu", non ci si renderà mai
sufficientemente conto della portata della fede cristiana che non sta in piedi
per una logica di ferro o per una migliore "forza concettuale"
rispetto ad altre filosofie, ma perché è Qualcosa di vero che raggiunge te, che
tocca te, che coinvolge te nella Sua storia. Quando abbiamo perso la passione
di "raccontare il cristianesimo", abbiamo corso seriamente il rischio
di diventare una filiale delle ideologie o dei partiti della nostra società, e
tutta la storia repubblicana del nostro paese — dalle elezioni del 1948 fino
alla seconda repubblica, passando per la "scelta religiosa" sessantottina
— ce lo dimostra, mettendoci seriamente in guardia contro ogni riduzione della
fede a cultura. La fede diventa cultura se è espressione di una storia
particolare, se è racconto di una storia che attrae l'uomo perché è
"viralmente testimoniata", propagandosi di cuore in cuore come si
propaga un virus invincibile.
È questo che, in mezzo
alla lunga transizione che stiamo attraversando, ci insegna e ci chiede il
fenomeno della post-verità: in un momento in cui la realtà smette di avere un
appeal in sé e la si racconta per interpretarla e manipolarla, abbiamo bisogno
di volti e di storie che la realtà la testimonino, spiazzando l'alone di
malvagità e di menzogna che sembra imperversare dovunque nella Rete, e sfidando
— con la povertà di una bellezza disarmata — l'insicurezza e la paura dei
nostri giorni, affidandoci coraggiosamente al cuore dell'uomo, e non al
consenso del mondo, per essere davvero incontrati e giudicati. La nuova
frontiera del cristianesimo passa da qui. Il fatto che la storia dopo l'anno
2000 abbia subito una violenta accelerazione ci ha costretto a prenderne
drammaticamente coscienza e ci ha imposto di smetterla di essere nostalgici per
iniziare un nuovo processo, quello stesso processo che portò i cristiani a
scrivere ciò che ancora oggi noi chiamiamo semplicemente "Vangelo".
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