|
Negli ultimi giorni ho ripensato
spesso a queste parole di don Luigi Giussani: «per incontrare la Chiesa io devo incontrare degli uomini, in un
ambiente. Non esiste la possibilità di incontrare la Chiesa universale
nella sua interezza, è un'immagine astratta: s'incontra la Chiesa nella sua
emergenza locale e ambientale. E uno la incontra esattamente come possibilità
di serietà critica, così che l'eventuale adesione - adesione grave perché da
essa dipende tutto il significato dell'esistenza - possa essere totalmente
ragionevole». (L.Giussani, Perché la chiesa. I. La
pretesa permane, Milano 1990, p.31)
In effetti, quella descritta da
don Giussani era, totalmente, l'esperienza
della chiesa che facevano i cristiani dei primi secoli e, in misura larghissima
e preponderante, quella dei cristiani vissuti nei secoli successivi, almeno
fino a cinquanta/sessanta anni fa. Per i cristiani, poniamo, di Corinto, di
Efeso o di Antiochia nel I o nel II secolo, il cristianesimo era veramente solo «la Chiesa nella sua emergenza locale e ambientale»: certo,
sapevano che c'erano altri cristiani “fino ai confini del mondo”, credevano di
essere in comunione con loro come membra di un unico corpo di Cristo, ma l'esperienza della chiesa che avevano
stava tutta nel rapporto diretto, concreto (e perciò, come nota acutamente
don Giussani, anche “criticamente serio”) con uomini e donne che conoscevano
personalmente e con cui si incontravano almeno una volta alla settimana. Volti
reali, del mondo reale.
Anche nei secoli della
cristianità, quando la chiesa cattolica aveva un'organizzazione molto più
strutturata e capillare, ai cristiani non
sarebbe neanche passato per l'anticamera del cervello che fosse possibile
«incontrare la Chiesa universale nella sua interezza». A due semplici
fedeli del XVII secolo come Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, tanto per dire,
che cosa poteva mai importare che il papa regnante fosse Urbano VIII o qualcun
altro? Forse ne sapevano il nome, ma di certo non ne conoscevano il volto e le
parole. Persino il loro vescovo, Federigo Borromeo, diventa per loro una
presenza concreta solo quando delle circostanze eccezionali glielo fanno
incontrare. La chiesa è don Abbondio e la gente della parrocchia (e la ricerca
di un carisma che aiuti a rendere quella presenza significativa e autorevole
non va oltre Pescarenico: padre Cristoforo!).
Certo, le cose sono cambiate,
dapprima lentamente e poi in modo sempre più veloce con l'andare dei tempi:
forse è stato Pio IX il primo papa con cui i fedeli di tutto il
mondo hanno avuto un rapporto “mediatico” di devozione, il primo visto in
fotografia (e le immagini del “papa prigioniero in Vaticano” entrarono nelle
case di tanti buoni cattolici che si commossero per lui9; e il Vaticano I è
stato il primo concilio di cui si sono occupati i giornali. Ma la vera svolta
c'è stata a partire dal Vaticano II, un concilio in cui - come ha ricordato più
volte Benedetto XVI - l'influenza dei
mezzi di comunicazione di massa fu così forte ed invasiva, che si può
parlare in realtà di due concili, quello reale e quello
mediatico (che in molti casi ha finito per prevalere sull'altro). E da allora
si è avviato un processo di mediatizzazione
della vita della chiesa che non si è più fermato.
Penso che sia assolutamente
necessario riflettere in modo approfondito su questo aspetto della presente
situazione, in cui, diversamente da tutti i venti secoli precedenti, per
un sempre maggior numero di persone il
rapporto con la chiesa è diventato prevalentemente (quando non esclusivamente)
mediatico. In che cosa consiste oggi, per la maggioranza delle persone, la
visibilità della chiesa? Molto di più nel papa, che si vede dappertutto, che fa
notizia, di cui si parla continuamente; oppure in altri personaggi
ecclesiastici o in “eventi” di massa che però sono sempre pubblicizzati dai
media; oppure nel “discorso pubblico” sulla chiesa dilagante in rete e sui
giornali in mille siti. Molto di meno nell'esperienza diretta di un incontro
nella vita quotidiana, sul posto di lavoro o lì dove si abita.
L'illusione di poter incontrare «la Chiesa universale
nella sua interezza» è perciò molto più diffusa (e pericolosa) oggi di un tempo (anche rispetto a quando don Giussani scriveva quelle
parole, ormai trent'anni fa). E le conseguenze teologiche di questo cambiamento
di prospettiva credo che non siano state ancora valutate adeguatamente.
Esiste, per esempio, un serio
problema con il “papato mediatico”: germinato probabilmente già con Pio XII,
aggravatosi con Giovanni XXIII, ingigantitosi con Giovanni Paolo II e oggi
deflagrato con Francesco. Quello che bisognerebbe capire, è che non è un
problema esterno, dei media: i media ne sono la condizione e la concausa, ma il
problema è della chiesa. Non è un problema di comunicazione, è un problema di
concezione.
Nessun commento:
Posta un commento