martedì 28 febbraio 2017

SI CHIAMAVA FABIANO ANTONIANI



tratto dal blog di LEONARDO LUGARESI
Bernini: il ratto di Proserpina
Non Dj Fabo, come hanno sparato in tanti, in questi giorni di martellante e ignobile campagna propagandistica a favore del diritto al suicidio. Tutti a parlarne come se l’avessero conosciuto, come se gli fossero stati amici, come se ci tenessero a lui … L’uso del soprannome, al posto del nome, è una spia: finge una familiarità che non c’è e nello stesso tempo tradisce che in realtà non si pensa alla persona, ma all’uomo-simbolo, al testimonial di una causa. Diciamolo più brutalmente: al pupazzo mediatico.
Invece di fronte alla morte non ci sono soprannomi, così come non ci sono titoli: di fronte alla morte siamo solo persone, e abbiamo solo il nostro nome. Quello del battesimo, se siamo battezzati (come penso fosse anche lui). È morto Fabiano Antoniani, non Dj Fabo: quello se n’era andato già da anni, insieme con le foto spavalde che piacciono tanto ai giornali e alle tv, quelle messe in prima pagina per farci capire, senza dirlo, che  la vita, se non può più essere quella delle corse in moto e delle notti in discoteca, non è neanche più degna di essere vissuta.
E noi, invece, che cosa possiamo dire di Fabiano Antoniani e per Fabiano Antoniani? Prima di tutto questo: «L’eterno riposo dona a lui Signore, risplenda a lui la luce perpetua».
Poi possiamo esprimere un sentimento di assoluto rispetto per la sua tragedia personale e, se ci riusciamo, provare un vero dolore per lui, anche se non lo conoscevamo. (Non è così facile, perché ormai abbiamo tutti il cuore indurito e i sentimenti, per lo più, li fingiamo).
Basta. Sulla vicenda personale non abbiamo bisogno di dire nient’altro. Non tocca a noi.
Invece sul “caso politico”  siamo tenuti a prendere posizione come cittadini, perché riguarda tutti. Ma dobbiamo farlo seriamente, prescindendo dalla vicenda personale. Diciamolo,  una buona volta: non si fa politica, non si fa diritto, non si fa legislazione (ma non si fa neanche economia, né scienza, né arte, né alcunché di aspirante ad un valore generale) sui casi personali, sullo sfruttamento delle emozioni e dei (presunti) buoni sentimenti. Cioè non si fa quello che da cinquant’anni, in Italia, hanno sempre fatto i radicali – con gli esiti che sappiamo; quello che fa anche in questi giorni il signor Cappato, per dirne uno.
La politica e il diritto si fanno a mente fredda. Cercando, per quello che si può, di ragionare. E allora, se si prende in considerazione la proposta politica di sancire nel nostro ordinamento un “diritto al suicidio”, basta non essere del tutto stupidi per accorgersi che sarebbe (sarà, temo) un’assurdità. L’affermazione di un diritto soggettivo, infatti, implica necessariamente, in capo a tutti gli altri soggetti , l’imposizione di doveri ad esso correlati e senza i quali il diritto stesso non esisterebbe. Per esempio: il mio diritto di proprietà su un bene vige solo in quanto comporta il correlativo dovere di tutti gli altri ad astenersi dall’impossessarsene. Se l’ordinamento riconoscesse un diritto al suicidio scatterebbe il dovere per tutti di astenersi dal compiere qualsiasi atto volto a impedirlo e, nello spirito della nostra costituzione, il dovere per lo stato di “rendere effettivo” tale diritto rimuovendo tutte le circostanze che possono ostacolarlo. Le tensioni che si stanno artificosamente provocando in questi stessi giorni a proposito della legge 194 sono lì a dimostrare gli effetti di questa logica: una volta affermato il diritto all’aborto scatta il dovere di fare abortire. Ma il suicidio è, per sua natura, un atto essenzialmente anti-giuridico. La legge non può normarlo. Eppure è quello che si sta cercando di ottenere.
E come cristiani, che cosa abbiamo da dire? Lasciamo pure da parte il piano politico e giuridico, sul merito della scelta di farsi uccidere quando si è in condizioni così difficili da vivere, che cosa possiamo dire noi cristiani, in un mondo in cui quasi tutti (ma proprio quasi tutti) sono convinti che sia giusto così, che sia anzi l’unica cosa da fare perché “se toccasse a me non vorrei certo continure a vivere ridotto in quel modo”?
La verità, temo, è che non abbiamo più niente da dire. È come se non avessimo più le ragioni. Balbettiamo qualcosa, pensiamo di cavarcela con belle frasi (oggi si porta molto “diciamo no alla cultura dello scarto”), ma le ragioni non le sappiamo più dare. O non abbiamo più il coraggio di dirle. Ci sarebbero, ma sono scritte in vecchi libri che non leggiamo più.
«Perché si deve continuare a vivere quando non si vuole più vivere?»  Se la chiesa non sa rispondere a questo, che cosa sa?


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