tratto dal blog di LEONARDO LUGARESI
Bernini: il ratto di Proserpina |
Non Dj Fabo, come hanno sparato in
tanti, in questi giorni di martellante e ignobile campagna propagandistica a
favore del diritto al suicidio. Tutti a parlarne come se l’avessero conosciuto,
come se gli fossero stati amici, come se ci tenessero a lui … L’uso del
soprannome, al posto del nome, è una spia: finge una familiarità che non c’è e
nello stesso tempo tradisce che in realtà non si pensa alla persona, ma
all’uomo-simbolo, al testimonial di una causa. Diciamolo più brutalmente: al
pupazzo mediatico.
Invece di fronte alla morte non ci sono
soprannomi, così come non ci sono titoli: di fronte alla morte siamo solo
persone, e abbiamo solo il nostro nome. Quello del battesimo, se siamo
battezzati (come penso fosse anche lui). È morto Fabiano Antoniani, non Dj
Fabo: quello se n’era andato già da anni, insieme con le foto spavalde che
piacciono tanto ai giornali e alle tv, quelle messe in prima pagina per farci
capire, senza dirlo, che la vita, se non può più essere quella delle
corse in moto e delle notti in discoteca, non è neanche più degna di essere
vissuta.
E noi, invece, che cosa possiamo dire di
Fabiano Antoniani e per Fabiano Antoniani? Prima di tutto questo: «L’eterno
riposo dona a lui Signore, risplenda a lui la luce perpetua».
Poi possiamo esprimere un sentimento di
assoluto rispetto per la sua tragedia personale e, se ci riusciamo, provare un
vero dolore per lui, anche se non lo conoscevamo. (Non è così facile, perché
ormai abbiamo tutti il cuore indurito e i sentimenti, per lo più, li fingiamo).
Basta. Sulla vicenda personale non
abbiamo bisogno di dire nient’altro. Non tocca a noi.
Invece sul “caso politico” siamo
tenuti a prendere posizione come cittadini, perché riguarda tutti. Ma dobbiamo
farlo seriamente, prescindendo dalla vicenda personale. Diciamolo, una
buona volta: non si fa politica, non si fa diritto, non si fa legislazione (ma
non si fa neanche economia, né scienza, né arte, né alcunché di aspirante ad un
valore generale) sui casi personali, sullo sfruttamento delle emozioni e dei
(presunti) buoni sentimenti. Cioè non si fa quello che da cinquant’anni, in
Italia, hanno sempre fatto i radicali – con gli esiti che sappiamo; quello che
fa anche in questi giorni il signor Cappato, per dirne uno.
La politica e il diritto si fanno a
mente fredda. Cercando, per quello che si può, di ragionare. E allora, se si
prende in considerazione la proposta politica di sancire nel nostro ordinamento
un “diritto al suicidio”, basta non essere del tutto stupidi per accorgersi che
sarebbe (sarà, temo) un’assurdità. L’affermazione di un diritto soggettivo,
infatti, implica necessariamente, in capo a tutti gli altri soggetti ,
l’imposizione di doveri ad esso correlati e senza i quali il diritto stesso non
esisterebbe. Per esempio: il mio diritto di proprietà su un bene vige solo in
quanto comporta il correlativo dovere di tutti gli altri ad astenersi
dall’impossessarsene. Se l’ordinamento riconoscesse un diritto al suicidio
scatterebbe il dovere per tutti di astenersi dal compiere qualsiasi atto volto
a impedirlo e, nello spirito della nostra costituzione, il dovere per lo stato
di “rendere effettivo” tale diritto rimuovendo tutte le circostanze che possono
ostacolarlo. Le tensioni che si stanno artificosamente provocando in questi
stessi giorni a proposito della legge 194 sono lì a dimostrare gli effetti di
questa logica: una volta affermato il diritto all’aborto scatta il dovere di
fare abortire. Ma il suicidio è, per sua natura, un atto essenzialmente
anti-giuridico. La legge non può normarlo. Eppure è quello che si sta cercando
di ottenere.
E come cristiani, che cosa abbiamo da
dire? Lasciamo pure da parte il piano politico e giuridico, sul merito della
scelta di farsi uccidere quando si è in condizioni così difficili da vivere,
che cosa possiamo dire noi cristiani, in un mondo in cui quasi tutti (ma
proprio quasi tutti) sono convinti che sia giusto così, che sia anzi l’unica
cosa da fare perché “se toccasse a me non vorrei certo continure a vivere
ridotto in quel modo”?
La verità, temo, è che non abbiamo più
niente da dire. È come se non avessimo più le ragioni. Balbettiamo qualcosa,
pensiamo di cavarcela con belle frasi (oggi si porta molto “diciamo no alla
cultura dello scarto”), ma le ragioni non le sappiamo più dare. O non abbiamo
più il coraggio di dirle. Ci sarebbero, ma sono scritte in vecchi libri che non
leggiamo più.
«Perché si deve continuare a vivere
quando non si vuole più vivere?» Se la chiesa non sa rispondere a questo,
che cosa sa?