martedì 3 novembre 2020

ADDIO O ARRIVEDERCI?

L'America vota, la sua democrazia continua ad essere più forte delle tigri di carta che ne schiumano rabbiosamente la fine. Il Mondo Nuovo continua ad essere Nuovo. E il Vecchio Continente è un continente vecchio, decrepito, senza alcuna energia. Viviamo di uno splendido passato che non basta a costruire un decente presente e futuro per i nostri figli. 

Dopo Parigi, dopo Madrid, dopo Barcellona, dopo Nizza, dopo Bruxelles, dopo Londra, dopo ogni luogo e ogni dopo - ci sono spari, la morte che colpisce casualmente ma con un obiettivo preciso: ricordarci la nostra debolezza interiore, trasmettere il virus più grande, quello della paura,  sul ponte dove già sventola bandiera bianca.

Il ciclo è collaudato, regolare, puntuale: scelta dell'obiettivo, attentato, morte, lutto, mai più, non ci arrenderemo, oblìo, non si fa nulla, alla prossima bomba. 

Andiamo in America, ultima speranza dell'Occidente.

La pandemia ha cambiato le abitudini degli elettori, un elemento di difficile lettura nel voto di oggi: 98,8 milioni di americani hanno votato in anticipo (35,720,830 in persona e 63,081,750 per corrispondenza). Un numero enorme, pari al 71.7% del totale dei votanti del 2016. Una rivoluzione

Uno spettro s'aggira nel castello dei dem, anzi due: un altro 2016 e un altro 2000, quando Bush vinse con il ricorso alla Corte Suprema. Il grande ribaltone di Trump e il bis di The Donald; la corsa senza freni di due candidati, il risultato contestato e la decisione dei giudici della Corte Suprema che ora con la nomina di Amy Coney Barrett è quasi tutta trumpiana. Dio, che incubo. 

"THE SHOW MUST GO ON".

il racconto è sempre quello, il grattacielo contro il ranch, la prateria e la giungla d'asfalto, il cavallo selvaggio e la limousine. D'altronde il ritornello di Biden è che "lottiamo per l'anima della nazione".  Dall'altra parte, c'è quel che resta dell'American Dream, rifatto, tutto ultravioletto e Botox, una cosa che non è quella degli anni Sessanta e Settanta, che non è la Camelot kennedyana e non può essere il sognando California di Ronald Reagan. È il reality di Trump.


I comizi di Biden
Il coronavirus (la principale se non unica ragione che può far vincere Biden) non esaurisce tutta la storia, non la spiega. C'è altro: l'economia prima di tutto, la Cina e la delocalizzazione, il Made in America da difendere, la sanità e l'Obamacare, il Green New Deal e il suo rapporto con un paese che deve produrre tanta energia per le sue famiglie e imprese, trivelle, petrolio, fracking, gas e nuova politica in Medio Oriente, il Grande Gioco, e poi c'è il "lockdown mortale", gli "Stati prigione" e "non faremo mai come in Europa", che non sono slogan, ma una sensazione epidermica diffusa negli elettori americani, repubblicani e democratici. La salute, certo, ma non chiudete il business perché si muore anche di fame.

E poi c'è un fil rouge che viene direttamente dal 2016, meno evidente nei titoli dei giornali e delle televisioni, ma nei Maga rally di Trump è stato un tema costante, l'immigrazione.

... e quelli di Trump

Il 2016, il muro al confine con il Messico, il problema della frontiera e dell'immigrazione ritorna sempre. Ecco quello che è accaduto a migliaia di fan che ascoltavano Trump durante il comizio di Hickory, nella Carolina del Nord.

 A un certo punto il presidente ha tirato fuori dalla giacca un foglio di carta e ha cominciato a recitare i versi di "The Snake", il serpente, una canzone di Al Wilson (un nero) che nel 1968 scalò le classifiche e che Trump aveva utilizzato in molti comizi del 2006. La canzone racconta la storia di una donna che salva un serpente dal gelo, lo porta a casa, lo scalda, lo nutre e poi viene morsa e uccisa dal rettile.
 
Il dialogo finale
 di "The Snake", la rivelazione dell'illusione, dell'inganno, dell'inesorabile corso della natura, è in questa strofa:

"Ti ho salvato", gridò quella donna 
"E mi hai anche morso, perché?" 
"E sai che il tuo morso è velenoso e ora morirò". 
"Oh sta' zitta, sciocca donna", disse il rettile con un sorriso 
"Sapevi dannatamente bene che ero un serpente prima di portarmi dentro".

La recitava nel 2016, Trump. Quel candidato per caso su cui nessuno allora scommetteva un dollaro. Un clown, nel migliore dei casi. E ora riecco l'inquietudine dei versi di "The Snake", quel Trump che dopo quattro anni non è cambiato e per i dem è solo peggiorato. Quelle strofe echeggiano di nuovo in un comizio di Trump, dopo gli attentati in Francia, e oggi in Austria. Sui social si è scatenata la tempesta, quella degli adoratori e quella degli avversari, gli haters ("è Trump il serpente") che denunciano come  l'uso di questi versi sia una inaccettabile metafora usata contro l'immigrazione, lo straniero, la materializzazione di un sibilante razzismo trumpiano. Un crotalo sotto un sasso nel deserto.

Siamo ancora una volta alla collisione delle due Americhe. E siamo  nella terra sconosciuta, piena di incognite, dell'Election Day. Siamo alla vigilia della fine e sappiamo che non sarà la fine, perché il 4 novembre comincia un'altra storia.

Addio o arrivederci?

 

 

 

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