mercoledì 18 novembre 2020

RECOVERY CRASH

 Non sono Ungheria e Polonia a bloccare gli aiuti Ue

Lo scontro sulla clausola del rispetto dello Stato di diritto (che presenta molti problemi) è stato voluto dai paesi del Nord per affossare il Recovery Fund 


Tutti i giornali ieri accusavano Ungheria e Polonia di «tenere in ostaggio» il Recovery Fund. L’altro giorno si è riunito il Comitato dei rappresentanti permanenti presso la Ue e, come previsto, gli ambasciatori dei due paesi hanno votato contro il pacchetto proposto dalla presidenza tedesca. Questo comprende, oltre al Next Generation Eu, l’accordo di principio sul bilancio pluriennale dell’Unione 2021-2027 e l’intesa con il Parlamento sul rispetto dello Stato di diritto come condizione per ottenere i fondi europei. Budapest e Varsavia non sono d’accordo solo su quest’ultimo punto e, per bloccarlo, si sono opposti agli altri due sfruttando la struttura a pacchetto delle tre decisioni scelta dalla Germania.

LO STATO DI DIRITTO USATO COME GRIMALDELLO LGBTQI

I due paesi hanno tutto da perdere nel bloccare bilancio e Recovery Fund dal momento che, ad esempio, l’Ungheria riceve 6,3 miliardi dai fondi di coesione e 7,5 miliardi dal nuovo schema di solidarietà europea. Ma come dichiarato dal premier magiaro Viktor Orban, condizionare l’erogazione dei fondi al rispetto dello Stato di diritto «trasformerebbe l’Unione Europea in una nuova Unione Sovietica». Orban ha tutto l’interesse ad alimentare la tensione con Bruxelles per strappare ulteriori voti in vista delle elezioni del 2022, però, al di là dei toni, qualcosa in questa faccenda dello Stato di diritto non torna davvero.

Con Stato di diritto, infatti, la Commissione europea non si riferisce soltanto ai temi della magistratura indipendente, della lotta alla corruzione, del pluralismo dell’informazione, del bilanciamento dei poteri, e in generale della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini. Intende dare vere e proprie patenti di democraticità agli Stati anche in base alla tutela dei nuovi diritti civili. Nel primo report del 30 settembre sul rispetto dello Stato di diritto nell’Ue, ad esempio, la Polonia è stata censurata per il trattamento di Ong e gruppi Lgbt.

Ursula von der Leyen ha poi parlato della necessità di definire strategie per realizzare un piano che implementi l’ideologia Lgbtqi negli ordinamenti giuridici dell’Unione e degli Stati membri. Come riportato dal Centro studi Livatino,

«la subordinazione dei finanziamenti europei all’adeguamento degli ordinamenti degli Stati membri alle azioni contenute nel piano è grave, si tratta di una potestà che esula dai poteri conferiti all’Unione dall’art. 10 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (Tfue) e dà vita a un’interpretazione di mala fede di trattati istitutivi. L’art. 10 Tfue, infatti, deve essere letto in combinato disposto con gli art. 5 e 6 e con il più generale principio di razionalità, per cui la leva finanziaria non può essere utilizzata come strumento surrettizio per forzare la sovranità degli Stati membri in materie che esulano dalle competenze dell’Unione Europea. E tale coartazione, da parte della Commissione, appare tanto più odiosa nella misura in cui, dichiarando di applicarsi anche ai finanziamenti per l’emergenza sanitaria, discrimina apertamente i malati e le loro famiglie rispetto ad altre categorie sociali (gli Lgbtqi) senza alcuna base razionale».

LA VERA MINACCIA SONO I PAESI DEL NORD

Ungheria e Polonia non hanno dunque tutti i torti a protestare contro questa nuova iniziativa. Soprattutto, non si può dimenticare che sono stati i paesi del Nord (Olanda, Danimarca, Svezia, Austria e Finlandia) a insistere sull’inserimento della clausola dello Stato di diritto proprio per scatenare la reazione di Budapest e Varsavia e così affossare, o almeno rimandare, l’odiato Recovery Fund. Come nota Federico Fubini sul Corriere, la vera minaccia al lancio del fondo europeo sono i paesi cosiddetti “frugali”.

Se i governi possono trovare un’intesa sul meccanismo di condizionalità sullo Stato di diritto, magari annacquandolo tanto da renderlo ininfluente, il Recovery Fund una volta approvato dal Consiglio europeo dovrà essere ratificato dai Parlamenti nazionali. «In Olanda il 17 marzo ci sono le elezioni politiche, dunque la ratifica slitta almeno ad aprile. Danimarca e Svezia sono rette da governi di minoranza che non controllano Parlamenti molto sospettosi verso il Recovery Fund. In Finlandia non è molto diverso. È dunque anche il tentativo di rassicurazione dei parlamentari dei paesi nordici che spinge la Commissione ad essere troppo pignola sui prerequisiti dei piani nazionali da presentare».

SE NE RIPARLA A LUGLIO, MA NON ERA «URGENTE»?

Chi è dunque che tiene in ostaggio il Recovery Fund? Né la Polonia né l’Ungheria, ma i paesi del Nord. Se i membri dell’Ue riusciranno alla fine a raggiungere un faticoso accordo, è impossibile che le risorse arrivino prima dell’estate 2021. A questo punto sorge una domanda: ma la risposta europea alla crisi causata dalla pandemia a partire da marzo non era «necessaria e urgente» (Giuseppe Conte, aprile 2020), «doverosa e urgente» (Angela Merkel giugno 2020), «nobile e urgente» (Ursula von der Leyen, settembre 2020)? Non per tutti, evidentemente.

@LeoneGrotti

Foto Ansa

18 novembre 2020 

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