Non sono Ungheria e Polonia a bloccare gli aiuti Ue
Lo scontro sulla clausola del rispetto dello Stato di diritto (che presenta molti problemi) è stato voluto dai paesi del Nord per affossare il Recovery Fund
Tutti i giornali ieri accusavano Ungheria
e Polonia di «tenere in ostaggio» il Recovery Fund. L’altro giorno si è riunito
il Comitato dei rappresentanti permanenti presso la Ue e, come previsto, gli
ambasciatori dei due paesi hanno votato contro il pacchetto proposto dalla
presidenza tedesca. Questo comprende,
oltre al Next Generation Eu, l’accordo di principio sul bilancio pluriennale
dell’Unione 2021-2027 e l’intesa con il Parlamento sul rispetto dello Stato di
diritto come condizione per ottenere i fondi europei. Budapest e Varsavia
non sono d’accordo solo su quest’ultimo punto e, per bloccarlo, si sono opposti
agli altri due sfruttando la struttura a pacchetto delle tre decisioni scelta
dalla Germania.
LO STATO DI DIRITTO USATO COME GRIMALDELLO
LGBTQI
I due paesi hanno tutto da perdere nel
bloccare bilancio e Recovery Fund dal momento che, ad esempio, l’Ungheria
riceve 6,3 miliardi dai fondi di coesione e 7,5 miliardi dal nuovo schema di
solidarietà europea. Ma come dichiarato dal premier magiaro Viktor Orban, condizionare l’erogazione dei fondi al
rispetto dello Stato di diritto «trasformerebbe l’Unione Europea in una nuova
Unione Sovietica». Orban ha tutto l’interesse ad alimentare la tensione con
Bruxelles per strappare ulteriori voti in vista delle elezioni del 2022, però,
al di là dei toni, qualcosa in questa faccenda dello Stato di diritto non torna
davvero.
Con Stato di diritto, infatti, la Commissione europea non si riferisce
soltanto ai temi della magistratura indipendente, della lotta alla corruzione,
del pluralismo dell’informazione, del bilanciamento dei poteri, e in generale
della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini. Intende dare vere e proprie patenti di democraticità agli Stati
anche in base alla tutela dei nuovi
diritti civili. Nel primo report del 30 settembre sul rispetto dello Stato
di diritto nell’Ue, ad esempio, la Polonia è stata censurata per il trattamento
di Ong e gruppi Lgbt.
Ursula von der Leyen ha poi parlato della
necessità di definire strategie per realizzare un piano che implementi
l’ideologia Lgbtqi negli ordinamenti giuridici dell’Unione e degli Stati
membri. Come riportato dal Centro studi Livatino,
«la
subordinazione dei finanziamenti europei all’adeguamento degli ordinamenti
degli Stati membri alle azioni contenute nel piano è grave, si tratta di una
potestà che esula dai poteri conferiti all’Unione dall’art. 10 del
Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (Tfue) e dà vita a
un’interpretazione di mala fede di trattati istitutivi. L’art. 10 Tfue,
infatti, deve essere letto in combinato disposto con gli art. 5 e 6 e con il
più generale principio di razionalità, per cui la leva finanziaria non può essere utilizzata come strumento
surrettizio per forzare la sovranità degli Stati membri in materie che esulano
dalle competenze dell’Unione Europea. E tale coartazione, da parte della
Commissione, appare tanto più odiosa nella misura in cui, dichiarando di
applicarsi anche ai finanziamenti per l’emergenza sanitaria, discrimina
apertamente i malati e le loro famiglie rispetto ad altre categorie
sociali (gli Lgbtqi) senza alcuna base razionale».
LA VERA MINACCIA SONO I PAESI DEL NORD
Ungheria e Polonia non hanno dunque tutti
i torti a protestare contro questa nuova iniziativa. Soprattutto, non si può dimenticare che sono stati i paesi del Nord (Olanda,
Danimarca, Svezia, Austria e Finlandia) a insistere sull’inserimento della
clausola dello Stato di diritto proprio per scatenare la reazione di Budapest e
Varsavia e così affossare, o almeno rimandare, l’odiato Recovery Fund. Come
nota Federico Fubini sul Corriere, la vera minaccia al lancio
del fondo europeo sono i paesi cosiddetti “frugali”.
Se i governi possono trovare un’intesa sul
meccanismo di condizionalità sullo Stato di diritto, magari annacquandolo tanto
da renderlo ininfluente, il Recovery Fund una volta approvato dal Consiglio
europeo dovrà essere ratificato dai Parlamenti nazionali. «In Olanda il 17 marzo ci sono le elezioni politiche, dunque la
ratifica slitta almeno ad aprile. Danimarca e Svezia sono rette da governi di
minoranza che non controllano Parlamenti molto sospettosi verso il Recovery
Fund. In Finlandia non è molto diverso. È dunque anche il tentativo di
rassicurazione dei parlamentari dei paesi nordici che spinge la Commissione ad
essere troppo pignola sui prerequisiti dei piani nazionali da presentare».
SE NE RIPARLA A LUGLIO, MA NON ERA
«URGENTE»?
Chi è dunque che tiene in ostaggio il
Recovery Fund? Né la Polonia né l’Ungheria, ma i paesi del Nord. Se i membri
dell’Ue riusciranno alla fine a raggiungere un faticoso accordo, è impossibile
che le risorse arrivino prima dell’estate 2021. A questo punto sorge una
domanda: ma la risposta europea alla crisi causata dalla pandemia a partire da
marzo non era «necessaria e urgente» (Giuseppe Conte, aprile 2020), «doverosa e
urgente» (Angela Merkel giugno 2020), «nobile e urgente» (Ursula von der Leyen,
settembre 2020)? Non per tutti, evidentemente.
Foto Ansa
18 novembre 2020
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