«Fratelli tutti» - Per una lettura dell’enciclica di Papa Francesco
di Francesco Botturi
17 novembre 2020
Dopo i molti commenti all’enciclica Fratelli tutti,
che già costituiscono un ulteriore oggetto di riflessione, merita di tornare
sul testo per cercare di riafferrare l’intenzione interiore che lo orienta e
chiede, come è dovuto al magistero di Pietro, ascolto e interesse. Solo così
diventa possibile interloquire con il testo e diventarne sensati “cooperatori”.
Diagnosi di fine epocaFrancesco e il grande Imam di Al-Azhar
La grande quantità dei temi dell’enciclica ricapitolano tutti quelli principali
dell’attuale insegnamento papale. Nella trama delle tante e gravi questioni, di
ordine morale, sociale, economico, politico, ecc., che vi sono contenute,
ricorre una sindrome
antropologica che nell’enciclica assume vari nomi: «scisma
tra singolo e comunità», individualismo, perdita di radici, mancanza di senso
della gratuità, crisi di appartenenza, carenza di integrazione tra generazioni,
deficit di solidarietà; a cui
corrispondono i molti fenomeni della globalizzazione tecnologica-tecnocratica
(cfr. la Laudato si’) che uniforma popoli e culture ma non unisce,
che produce progresso ma non garantisce giustizia, che generalizza ma non dà
significati universali. In sintesi, un quadro antropologico in cui è
la relazione del Sé e dell’altro — luogo di nascita
dell’io e del noi — a subire un attacco in cui l’umano come tale è
sistematicamente minacciato.
Fraternità secolarizzata
Si potrebbe assumere questa diagnosi come un’implicita lettura della secolarizzazione
moderna, la cui grande ipotesi di un regnum hominis dapprima
autonomo, poi separato dal legame religioso con Dio, stia verificando su grande
scala una paradossale e definitiva detronizzazione dell’uomo, sino alla
compromissione delle sue dimensioni costitutive. In questa prospettiva
l’evocazione delle tre grandi parole dell’Illuminismo rivoluzionario fran-cese
(103) libertà, uguaglianza, fraternità alluderebbe al rilancio ideale di
quell’aspetto (fraternità) in cui l’Illuminismo ha fallito. L’umanesimo illuminista, infatti, ha
“decapitato” proprio la categoria più cristiana facendone un’idea etica e
politica contraddittoria, cioè una fraternità senza metodo fraterno, resa
oggetto di un programma ideologico coattivo. In definitiva, dell’universalità
fraterna illuminista si può già dire quello che l’enciclica attribuisce alla
pretesa universalista della globalizzazione contemporanea, di essere cioè un
«universalismo autoritario astratto» finalizzato a scopo di potere (cfr. 100).
Fraternità: crocevia e fondamento
Non è da qui dunque che si può ricominciare. Tuttavia l’istanza di fraternità,
che in varie forme attraversa l’epoca moderna, non può essere lasciata cadere,
perché inaspettatamente, quando ogni riserva ideale sembra consumata, si fa sentire
una richiesta di radicalità antropologica che va raccolta e promossa. In questo senso la categoria di
fraternità è nell’enciclica insieme crocevia e fondamento.
Anzitutto uno spazio di
incontro tra le attese deluse della modernità, le aspirazioni delle
persone di buona volontà di ogni provenienza, la disponibilità di autorità
religiose (cfr. il Documento sulla fratellanza umana per la pace
mondiale e la convivenza comune Abu Dhabi 4 febbraio 2019), la
configurazione della coscienza cristiana in una cultura post-ideologica.
Interessante, in proposito, la valutazione dell’enciclica che, nonostante la
rilevazione di molte negatività, segnali di una modernità esausta, ritiene che
«oggi siamo di fronte alla grande occasione [storica] di esprimere il nostro essere
fratelli» (77).
Ma la fraternità è anche fondamento, perché non c’è qualificazione umana
più densa e radicale della condizione di fratello/sorella, che non denota un
tipo di operazioni ma uno statuto ontologico entro l’irreversibile comunanza di
una paternità e una maternità. Qui mi pare essere decisiva una distinzione: la
fraternità, prima di essere un
ideale (religioso, morale,
sociale), è un evento, un dono, una condizione d’essere; e
perciò richiede un fondamento di realtà, per poter diventare anche modello di
umanità autentica e non decadere (contro
ogni buona volontà) in ideale volontaristico o progetto ideologico.
Una tensione da risolvere
A questo proposito mi sembra si configuri il caso serio dell’enciclica Fratelli
tutti. Se si confrontano, infatti, l’inizio e la fine del testo, sorprende
una difficoltà che va affrontata, proprio per non perdere o non fraintendere lo
slancio del discorso. Al paragrafo 6 si
afferma l’intenzione di «non riassumere la dottrina sull’amore fraterno», ma di
«soffermarsi sulla sua dimensione universale, sulla sua apertura a tutti»,
perché l’enciclica, scritta «a partire dalle convinzioni cristiane» dello
scrivente, è stata redatta «in modo che la riflessione si apra al dialogo con
tutte le persone di buona volontà». Al termine del testo, invece, nel paragrafo
intitolato Il fondamento ultimo, si afferma che «come credenti pensiamo che,
senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e
stabili per l’appello alla fraternità» (272); e si cita Benedetto xvi:
«La sola ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini
e di stabilire una convivenza civica tra loro [come l’“amicizia sociale”], ma non riesce a fondare la fraternità»
(Caritas in veritate, 19): alla base di tutto il discorso c’è una tensione destabilizzante tra una
ragione fondativa cristiana, ma considerata di parte, e un dialogo aperto a
tutti, ma su un valore che resta infondato, che riconduce al fondamento.
Fraternità cristiana
La comune discendenza da Adamo, la condivisione della medesima natura sta a
fondamento di una comunanza reale, ma generica e segnata dall’ombra tenebrosa
del fratricidio. Solo come fraternità
redenta la relazione di fratellanza ridiventa spazio eccellente
dell’umano: la fraternità reale dipende dalla nuova conoscenza della paternità
di Dio donata in Cristo, come dice anche l’enciclica, quando connette il
senso dell’altro come fratello alla rivelazione circa «la vita intima di Dio»,
«comunità di tre persone, origine e modello perfetto di ogni vita comune» (85).
La realtà concreta della fraternità non
può prescindere dall’ancoraggio
teologico alla realtà nuova della nostra reale incorporazione nel
Figlio e della nostra reale trasformazione in figli, per cui l’essere fratelli
è più di un sentire psicologico o spirituale e più di un’intenzione morale, ma
è appunto una condizione ontologica. In breve, perché la fraternità possa
essere davvero proposta come ideale di relazione e di azione storica, è
necessario che “da qualche parte” essa esista come realtà effettiva e stabile,
dando ragione e speranza alla sua proposta.
Ricentramento ecclesiologico e nuova concretezza
Che dire, dunque? Che la fraternità è accessibile solo ai cristiani e che la
loro unità fraterna li costituisce in assemblea (ekklesía) separata? E
che, per evitare questo, bisogna accontentarsi dell’universale generica istanza
di fraternità (peraltro insegnata dal cristianesimo)? Bisogna ritrovare il nesso tra l’indiscutibile universalità cristiana
(apertura) e l’altrettanto indiscutibile particolarità cristiana
(delimitazione), perché la contrapposizione di queste due essenziali
dimensioni — che è un’eredità negativa del razionalismo moderno — è
dissolutoria; tendenza oggi diffusa, con le sue evidenti conseguenze.
La logica cristiana, invece, è diversa,
perché è sacramentale. Il
“tutto nel frammento”, l’Uno per i molti, la chiamata di pochi a favore di
tutti, la elezione di un popolo in rappresentanza vicaria di ogni altro popolo,
la fraternità redenta donata ad alcuni come possibilità universale: è questo
l’“universale concreto” cristiano; universale che si dà e che opera sempre nel
singolare (ad analogia del simbolico estetico), che deve guardarsi
dall’universale astratto e dal particolare astratto.
Per questo la comunità cristiana ha un ruolo centrale,
non in nome di un primato, ma in forza di ciò di cui essa è portatrice e di cui
deve essere testimonianza vivente (parola ed evento): che la fraternità è donata ed è possibile; che
è offerta a tutti e riceve il contributo di tutti; che è se stessa e può
collaborare con tutti. Le comunità cristiane dovrebbero essere protagoniste
come realtà fraterne, consapevoli della valenza anche culturale e storica della
loro essenziale testimonianza; come afferma l’enciclica quando auspica che «la
catechesi e la predicazione includano in modo più diretto e chiaro il senso
sociale dell’esistenza, la dimensione fraterna delle spiritualità [...]» (86).
Di più, l’intera Chiesa dovrebbe risignificare famiglie, parrocchie, comunità religiose, aggregazioni laicali, ecc. come soggetti storici reali e agenti pubblici di fraternità; con la prioritaria e urgente preoccupazione che tale fratellanza sia davvero autentica. In breve, la grande proposta di Papa Francesco ha bisogno di fatti fondati che la incarnino e la Chiesa e le sue comunità non possono non entrare in gioco, cogliendo la «grande occasione storica di esprimere» (cfr. 77) la loro vocazione fraterna.
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