Se non ricordiamo sempre che la scelta fra bene e male è in noi, come possiamo capire perché popoli interi hanno seguito dei dittatori che hanno voluto sterminare le minoranze? Nostra intervista alla scrittrice.
Per noi tutti Antonia Arslan rappresenta la tragedia del popolo armeno che abbiamo conosciuto proprio attraverso i suoi romanzi, soprattutto "La masseria delle allodole". Ma attraverso di lei, oltre alla tragedia, abbiamo conosciuto anche la bellezza stupenda di una cultura profondamente cristiana. Oggi le abbiamo chiesto di rispondere ad alcune domande, sapendo che per lei sono questioni molto sofferte.
Nella vicenda armena viene alla luce innanzitutto la
testimonianza cristiana di un intero popolo, ma sicuramente nella regione
caucasica si intrecciano anche questioni geopolitiche di grande portata.
Secondo lei che peso hanno il primo e il secondo elemento, e come si intrecciano?
Grazie intanto di questa intervista, ne sono molto contenta, anche perché
sulla tragedia che si va consumando nell’attuale Armenia e nel Nagorno Karabakh
il silenzio della stampa è stato assordante, e ancor più assordante quello
delle istituzioni, soprattutto delle istituzioni europee. Per venire alla
domanda… La scelta cristiana degli armeni, ossia la loro conversione al
cristianesimo come nazione, risale al 301 d.C.; prima di questa data, nel corso
del primo e secondo secolo, l’Armenia, allora alleata di Roma, aveva visto
oltre a singole conversioni, il passaggio nei suoi territori di apostoli come
Taddeo. La data del 301 d. C, si dice, è leggendaria, ma non molto distante da
quella reale. In sostanza, è comunque precedente all’editto di Costantino.
L’Armenia è quindi la prima nazione che si converte con la sua totalità al
cristianesimo, per volontà del suo re Tiridate.
Il monastero di KHOR e l'Ararat |
A questo proposito, una leggenda narra che il re
Tiridate aveva cacciato in un pozzo profondo san Gregorio Illuminatore (c’è
ancora, poco distante da Erevan, il monastero di Khor Virap, chiamato «pozzo
profondo»), perché il santo aveva tentato di convertirlo e di convincerlo a
rinunciare alle molte mogli che aveva per tenerne una sola. Gregorio era
vissuto nel pozzo per diverso tempo, e la sorella del re lo aveva fatto
sopravvivere. Quando poi il re si ammalò, la sorella gli consigliò di ricorrere
al santo. Così fu fatto uscire dal pozzo, salvò il re, che si convertì con
tutto il suo popolo. A questo fatto leggendario, ma comunque autentico nella
sua essenza, è seguita l’identificazione del popolo armeno col cristianesimo,
che ha costituito a una sorta di identità religiosa. Com’è stato detto molto
bene da un grande condottiero armeno sconfitto, ma rispettato nella sua
sconfitta, che si chiamava Vahan Mamikonian nel 450 d. C.:
il cristianesimo per noi è come una pelle, se ci togliete questa pelle moriamo. E il re che lo aveva sconfitto rispettò questa dichiarazione, e lo lasciò continuare a professare la sua religione con il suo popolo.
Quindi di per sé per tutto il Medioevo c’è stata questa forte
identificazione, questa quasi orgogliosa identificazione del popolo armeno con
la sua versione del cristianesimo che, bisogna ricordarlo, non è l’ortodossia
russa o greca, è una via di mezzo. I vescovi armeni, infatti, non raggiunsero
in tempo la sede del concilio di Calcedonia e furono poi dichiarati eretici, ma
è un’eresia che è stata sanata dalla famosa dichiarazione di papa Giovanni
Paolo II insieme al Catholicos di tutti gli armeni, alla fine degli anni ’90.
Questa dichiarazione molto solenne proclamava che fra il cristianesimo armeno
(chiamato anche apostolico o gregoriano, da san Gregorio Illuminatore) e il
cattolicesimo, non c’è differenza di dogma ma solo di rito. È da allora che,
negli ultimi vent’anni, i cattolici armeni di rito orientale (come ad esempio
la mia famiglia) e gli armeni apostolici si sono man mano riavvicinati. Questo
è bellissimo. I due capi, il papa Giovanni Paolo II e il Catholicos Karekin I,
siglarono poi l’accordo con la bella mostra su Roma e l’Armenia,
allestita nella Biblioteca Vaticana nel ‘99. Questo dato è importante proprio
per definire il cristianesimo armeno.
Ma la domanda verteva anche sull’importante questione delle etnie del
Caucaso. Qui entriamo in una realtà, quella caucasica, che vede una struttura
enorme di montagne, altissima, però peculiare, composta da piccoli altipiani (l’acrocoro
armeno) che si situano anche a 1000 metri, ma sono abbastanza pianeggianti e
coltivabili. In pratica, le successive invasioni hanno costituito nel Caucaso
una miriade di diverse etnie che si sono annidate, ciascuna in una valle, e che
sono sempre state abbastanza in lotta fra loro, tanto è vero che a un certo
punto la Russia zarista le ha pian piano sottomesse, ma con grande fatica.
Oggi nel Caucaso troviamo tre nazioni, costituite dopo il crollo della Russia zarista, e che negli anni ’20, prima di far parte dell’URSS, hanno goduto di un’effimera indipendenza, e cioè la Georgia, l’Armenia e L’Azerbaijan, costituitosi proprio allora. Le prime due sono cristiane, e la terza è musulmana. Fra loro ci sono sempre stati rapporti tesi. Ma, ed è questa un’origine dei mali attuali, nel 1920 Stalin (che non dimentichiamolo era georgiano), plenipotenziario di Lenin per la Transcaucasia, nel momento in cui sottomise le tre repubbliche e tutte e tre le inserì nell’URSS, divise la parte armena, togliendo due territori all’Armenia: il Nakhichevan che è separato territorialmente dall’Azerbaijan, ma è parte dell’Azerbaijan, e il Nagorno Karabakh, che è all’origine dell’attuale conflitto. Questi due territori erano abitati prevalentemente da armeni, ma sono stati dati all’Azerbaijan come territori autonomi. Dei due il primo, il Nakhichevan, è stato completamente privato della sua identità armena. Gli armeni sono fuggiti, le loro chiese e le testimonianze della loro lunga presenza lì sono state distrutte, perfino i cimiteri, come quello medievale di Djulfa. L’altro, il Nagorno Karabakh, è alla base dell’attuale conflitto…
Monastero di Dadivank |
Per il suo popolo
rimane il grande nodo del genocidio. Per definizione il genocidio è il
tentativo di annientare fisicamente un popolo, però penso che nel vostro caso
abbia anche altre manifestazioni… è vero?
Beh sì perché, vede,
il genocidio è una realtà che non finisce mai se non c’è un atto di
riconoscimento da parte del popolo che l’ha commesso, o del governo che l’ha
commesso. Nella definizione di genocidio, per come venne stilata nel 1944, la
componente del sangue – ossia quella che privò circa un milione e mezzo di
armeni della vita nei deserti dell’Anatolia nel 1915-16 e poi in modi diversi
ma sempre cruenti fino al 1922 alla tragedia di Smirne, e alla pace di Losanna
–, non è l’unica da considerare. Poi quello che segue, il negazionismo, è ciò
che continua il genocidio con mezzi diversi, mantenendo aperta nell’animo, nel
cuore, nella sensibilità dei sopravvissuti quella ferita che vorrebbero
dimenticare e superare. Ci sono molti libri su questo, ma io suggerisco sempre
un libro di una studiosa americana che ho fatto pubblicare l’anno scorso I
peccati dei padri di Siobhan Nash Marshall che racconta e analizza
come la realtà di un genocidio continua nei sopravvissuti e continua finché lo
si nega.
Ora la Turchia, erede dei perpetratori, continua a negarlo, e lo fa con ogni
mezzo.
Ma nonostante la
negazione ottusa e prezzolata di qualche studioso, ormai la quasi totalità
degli storici – di moltissime nazionalità, non solo armeni, anche turchi – non
ha alcun dubbio sul fatto che si sia trattato di genocidio.
La quantità di
testimonianze, prove esterne e documenti è ormai sovrabbondante.
Esce fra poco in Italia il libro importantissimo dello storico turco Taner
Akçam che si intitola Killing orders (ho tenuto il titolo in
inglese, ma il sottotitolo è I telegrammi di Talat Pasha). Questo
storico turco di grandissimo talento e coraggio (è stato anche in prigione ed è
poi fuggito), che oggi insegna alla Clark University negli Stati Uniti, che
conosce l’ottomano antico, e che conosce bene il suo Paese, è riuscito a verificare
e a dimostrare l’autenticità dei telegrammi di Talat Pasha che ordinavano lo
sterminio. Quindi parliamo di un portato storico di grandissimo valore perché
in pratica sono 90 anni che la Turchia cerca di sostenere che erano falsi,
inventati da un intellettuale armeno. Invece Akçam è riuscito a trovare la
persona che li aveva venduti, a capire chi fosse, a reperire i documenti, e a
verificare la cifratura dei telegrammi e delle trascrizioni, insomma a fare
tutto quello che poteva essere utile. Lui stesso a New York due anni fa mi ha
detto: questa è la pistola fumante, dopo la quale non si può più dire che non
ci fosse premeditazione e volontà di sterminio. Quindi io direi che, in questo
senso, quando parliamo di genocidio dobbiamo distinguere fra quelli che sono
stati riconosciuti, come il genocidio del Ruanda per esempio o la Shoah, e
quelli i cui responsabili ancora si ostinano a negare, perché questo
negazionismo incide in modo terribile anche sulla percezione della realtà dei
discendenti, sul senso di persecuzione che si prova, sull’impressione di essere
comunque sempre un possibile bersaglio. Credo proprio di poterlo dire
anche per esperienza personale.
Ultimo saluto a Dadivank |
Di fronte a questa voluta dimenticanza
quello che lei personalmente ha fatto è importantissimo, ma il lavoro sulla
memoria continua; noi occidentali come possiamo prendervi parte?
Io credo che da questo
lato, proprio l’Italia sia un esempio perché, vede, la realtà del popolo armeno
è quella di essere solo per una piccola parte (circa 2 milioni e mezzo di
persone) collocato ancora in una zona della sua sede storica. Non bisogna mai
dimenticare che ciò che noi oggi chiamiamo Armenia è, rispetto all’Armenia del
1915, una parte corrispondente a una regione di montagna; come se dell’Italia
sopravvivessero solo il Bellunese, il Trentino e la Lombardia del Nord. Una
regione di montagna, quindi ovviamente con le caratteristiche di una regione di
montagna: un dialetto particolare, una lingua particolare e un certo tipo di
mentalità. Tutto il resto della grande Armenia storica oggi è la Turchia
orientale, dove c’erano 2000 chiese che sono state distrutte, e dove sono stati
cancellati anche i nomi: 150.000 nomi di luoghi, villaggi, città, fiumi,
montagne, tutto è stato cancellato. Ecco il tema della memoria.
La città da cui proviene la mia famiglia che si chiamava Kharpert o Kharput
è diventata Elazig per esempio, e tutto è stato cambiato, perfino il nome del
monte Ararat, che è il monte simbolo dell’identità armena. Questo va sempre
ricordato. Ora, la piccola parte di armeni di montagna che è rimasta sotto la
Russia, e che ha ricevuto parecchi profughi sopravvissuti, è l’Armenia attuale.
Ma il resto degli armeni fuggiti, il mezzo milione di sopravvissuti, si è
sparso per il mondo e ha costituito la diaspora. Oggi la caratteristica del
popolo armeno è che la diaspora è più numerosa della popolazione dell’Armenia
indipendente. In diaspora, fra armeni al 100% e mezzosangue come me, saremo
circa 6 milioni, diffusi naturalmente in modo irregolare nel mondo, ma
soprattutto in Francia dove gli armeni sono più di mezzo milione, in Russia e
negli Stati Uniti dove invece sono più di un milione.
Dadivank |
Ma per esempio adesso, con la tragedia del Karabakh, i giornali hanno
reagito pochissimo e questo perché ci sono altri motivi concomitanti che
suggeriscono il silenzio, il silenzio assordante, come dico sempre, dell’Unione
Europea e del nostro governo. Ma paradossalmente molti comuni hanno di nuovo
affermato il diritto del Karabakh a sopravvivere.
Molti gruppi e molti singoli hanno scritto lettere di
solidarietà. Questo è bello secondo me, è molto interessante, tant’è vero che
tutta la diaspora sta studiando il caso italiano. Qui molta gente è al
corrente, solo che il lavoro della memoria non è semplicemente sapere che
quella volta è successa una tragedia, la memoria deve farci ricordare che può
succedere di nuovo.
Non solo noi come armeni (certo, come armeni portiamo
sulle spalle un senso di precarietà continuo, una sottile angoscia che ci
consuma), ma tutti dobbiamo tenere presente che è una cosa che purtroppo può
succedere, che bisogna essere vigili, attenti, bisogna scegliere il bene. Se
non sappiamo e non ricordiamo sempre che la scelta fra il bene e il male è in noi,
come possiamo capire il perché popoli interi hanno seguito dei dittatori che
hanno voluto sterminare le minoranze? Come risulta dal libro di Taner Akçam,
una cosa interessantissima è che il popolo turco, il popolino turco,
inizialmente non era affatto favorevole a sterminare gli armeni, ci convivevano
abbastanza pacificamente, magari litigavano fra loro, magari ogni tanto li
accoppavano pure, ma non c’era la volontà di sterminio totale, tanto è vero che
alcuni dei telegrammi di Talat Pasha lo dicono chiaramente e questo, secondo
me, è importante. Perché? Perché nel momento in cui tu vuoi coinvolgere un
popolo devi far intervenire altri sentimenti, sentimenti a cui la gente cede
facilmente come l’avidità, la voglia di possesso, di appropriarsi dei beni altrui.
Quando hanno fatto capire al popolo turco che poteva prendere i beni degli
armeni, allora è stata fatta. Perché sennò continuiamo a domandarci come mai i
tedeschi avevano Dachau a 20 km da Monaco e facevano finta di non saperlo.
C’erano anche tutti i beni degli ebrei di mezzo.
padre Hovhannes Hovhannisyan rimarrà s Dadivank |
Quello che sta
avvenendo adesso a Erevan in questi giorni ci pone un interrogativo: questo
legame non è andato smarrito? Questa crepa nell’identità, questa crisi interna
non è alla base della sconfitta odierna?
E questa è una buona
domanda, ma è una domanda a cui non so assolutamente rispondere. Io sono andata
molto spesso in Armenia, sono andata in Karabakh tre-quattro volte, è un paese
stupendo, e posso dire questo: l’identità cristiana armena è stata certamente
violentata da settant’anni di regime sovietico, perché in quel periodo la
religione ha subito gravi limitazioni. Devo però dire che in Armenia
l’atteggiamento dei sovietici è stato meno feroce rispetto ad altre parti,
hanno lasciato le chiese intatte, hanno lasciato che esistesse il Catholicos,
ma naturalmente i bambini non venivano battezzati, la gente non doveva andare
in Chiesa, e così via. C’era ancora un senso sotterraneo di rispetto per la
religione, ma naturalmente non era consentita la frequenza.
Quando il regime sovietico è caduto evidentemente si sono accorti di questo
patrimonio architettonico, di queste chiese fantastiche che però erano da
restaurare, moltissime erano abbandonate, dunque c’è stata la ricostruzione.
Può essere che questa ricostruzione sia stata, come
dappertutto nel mondo cristiano, basata più su apparenze esteriori che
sull’educazione interiore, e anche che la modernizzazione occidentale abbia
fatto breccia, in parte; credo però che nel profondo gli armeni siano ancora
legati al loro cristianesimo, e credo che naturalmente sentano queste radici
nel momento del bisogno.
Mi è arrivato un testo in cui si parla delle chiese che saranno abbandonate perché gli azeri hanno riconquistato i sette distretti che avevano perso nella guerra del ’92-’94 e lì ci sono alcuni dei più bei monumenti armeni medievali. C’è una chiesa stupenda a Dadivank, un posto che mi ha trasmesso un’energia spirituale incredibile, dove l’architetto Arà Zarian e la sua collaboratrice hanno ritrovato dei bellissimi affreschi sotto uno spesso strato di calce. Gli affreschi medievali armeni sono quasi tutti scomparsi proprio perché sono stati oggetto di molte invasioni, e questi affreschi straordinari finiranno in mano azera: forse si dirà che non sono cristiani, o forse si distruggeranno, …chi lo sa. Questo è quello che succederà. Mi è arrivato il messaggio che il prete armeno, padre Hovhannes che ho conosciuto 2 o 3 anni fa, non si è ancora mosso dalla sua chiesa, e assieme a lui i suoi parrocchiani. Faranno un’ultima funzione religiosa, e fra qualche giorno la dovranno abbandonare. È una cosa che strazia il cuore, però dobbiamo comunque avere la fiducia che il Signore è lì presente, e ci porta Lui dove vuole.
Antonia Arslan
Scrittrice, traduttrice e accademica di origini armene. Laureata in
archeologia, è stata per molti anni professore di Letteratura italiana moderna
e contemporanea all’Università di Padova. Tra le sue pubblicazioni e traduzioni
ha un posto particolare la storia delle persecuzioni e del genocidio subìti
dalla popolazione armena, come Metz Yeghèrn, Il genocidio degli Armeni di
C. Mutafian, o il suo romanzo La masseria delle allodole (Premio
Stresa, finalista del Premio Campiello).
https://www.lanuovaeuropa.org/societa/2020/11/17/parliamo-degli-armeni-siamo-solidali/
su you tube l'ultimo canto degli armeni a Dadivank
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