Si chiama “cancel culture”: non “cultura della cancellazione”, ma “cancella la cultura”. E accomuna l’Isis ad un certo occidente
Iraq, museo di Mosul, febbraio 2015. Un gruppo di uomini barbuti in caftano distruggono a colpi di mazza statue e reperti archeologici risalenti al VII secolo a.C. Appartengono ai terroristi dell’Isis che hanno appena occupato la città e festeggiano così la riconquista islamica. Ogni raffigurazione delle false divinità deve essere schiantata, ogni loro ricordo deve cadere nell’oblio. L’obiettivo della furia iconoclasta islamista è cancellare il patrimonio culturale iracheno che dà un’identità al popolo ed è motivo di orgoglio nazionale. Distruggendolo si spezza un legame antico, si azzera un passato importante e si ammorbidisce la resistenza culturale all’ideologia islamista. Nell’eterno presente che si viene a creare ci deve essere spazio solo per l’Isis e la sua dottrina feroce.
Settanta anni prima a
Berlino i nazisti si erano mossi sulla stessa linea coniando il termine di “entartete
Kunst”, arte degenerata, con cui venivano censurate tutte le opere d’arte che riflettevano valori
o estetiche contrarie alle concezioni naziste. I musei tedeschi furono purgati
dalle opere espressioniste, dadaiste, surrealiste, cubiste e in generale tutti
i lavori appartenenti ai movimenti artistici di avanguardia. In quel caso era
la modernità, e non l’antichità come nel caso dell’Iraq contemporaneo, a fare
da argine alla colonizzazione culturale nazista dell’animo tedesco.
Londra, New York, Chicago, estate 2020. Gruppi di
estremisti sedicenti antifascisti, antirazzisti e anticapitalisti armati
di mazze e spranghe invadono i parchi cittadini e buttano giù le statue di
Cristoforo Colombo, George Washington, Thomas Jefferson e, in nome
dell’anticolonialismo e dell’antirazzismo, imbrattano quella di Winston
Churchill. Appartengono al movimento della cancel culture, un
gruppo estremista che si prefigge di abbattere e distruggere tutto ciò che
ricordi anche lontanamente il passato colonialista dei paesi occidentali.
Ufficialmente, a detta dei nuovi iconoclasti, l’azione vuole impedire di omaggiare figure storiche controverse, in realtà cancel culture va inteso con l’espressione “cancel” come verbo transitivo e il sostantivo “culture” come oggetto: cancellare la cultura quindi e non “cultura della cancellazione”. Secondo questi gruppi radicali, che stanno prendendo piede anche in Europa, in occidente donne, omosessuali, neri e profughi sarebbero perseguitati dalla maggioranza bianca e tenuti in soggezione culturale. Le statue dei vecchi colonialisti avrebbero la funzione di fortificare la sottomissione razziale mentre i libri degli scrittori bianchi servirebbero a rafforzare la soggezione culturale. Quindi entrambe le cose devono essere distrutte o, nel caso dei libri, riscritti secondo i canoni del politicamente corretto.
Si potrebbe obiettare che gli iconoclasti di oggi attaccano soprattutto immagini che hanno a che vedere con il passato colonialista e/o razzista di alcuni paesi. Sembrerebbero quindi prendersela con personaggi storici controversi, il che in qualche modo giustificherebbe le loro azioni. La verità è che rabbia e aggressione hanno sempre bisogno di un obbiettivo a cui mirare. Oggi si tratta del vecchio colonialismo ma domani la cosa potrebbe cambiare. Recentemente in Germania nel mirino dei nuovi comitati di salute pubblica è finito il filosofo Emmanuel Kant. L’accusa è di quelle da ghigliottina immediata: visione eurocentrica che sottintende la superiorità della razza bianca rispetto a tutte le altre. Ora, mettere Kant dentro al pentolone dei predicatori razzisti significa ignorare che il filosofo di Königsberg ha influenzato il pensiero occidentale con il suo universalismo, che è l’esatto opposto dell’identitarismo razzista. Il caso di Kant conferma che la cancel culture, per poter proliferare, ha bisogno di molta ignoranza.
In una intervista recente sul tema, Bazon Brock, professore di estetica all’università di Wuppertal, parte da una constatazione semplice. Dal momento che non avrebbe senso distruggere una cosa che ci lascia indifferenti, la furia dei nuovi iconoclasti è in realtà un riconoscimento inconscio dell’importanza delle statue. Fin dai tempi di Leone III Isaurico sappiamo che coloro i quali sono tolleranti alle immagini lo sono proprio in virtù della loro indifferenza verso di esse, mentre i veri adoratori sarebbero proprio coloro che le distruggono. Con le loro azioni contro l’arte gli iconoclasti di tutte le epoche confermano l’importanza dell’arte. Infatti, perché distruggere statue, censurare libri, impedire ad artisti di esprimersi se non si credesse al potere delle loro opere? Coloro che agiscono contro l’arte, conclude Brock, sono coloro che confermano il potere dell’arte. Da questo punto di vista i distruttori di statue ricordano le scimmie della scena di apertura di 2001 Odissea nello spazio. Davanti a un incomprensibile monolite nero da cui emana un potere oscuro che li domina, i primati non riescono a fare nulla di meglio che fracassarsi la testa a vicenda a colpi di pietrate.
Invece di demolire le statue bisognerebbe compiere uno sforzo intellettuale oggi per molti quasi inimmaginabile: leggere. Fare collegamenti, soppesare, riflettere, comprendere le relazioni tra le cose e acquisire una prospettiva storica. Mettere in discussione certi personaggi controversi è e deve essere lecito, ma estrapolare i protagonisti del passato per proiettarli nei concetti etico-morali contemporanei, sempre che il mondo attuale possieda dei principi etico-morali, il che è quantomeno discutibile, al fine di giudicarli non è solo sbagliato, è stupido. La storia non si può revisionare intervenendo a posteriori, cento o duecento anni dopo, condannando i protagonisti di allora come se agissero oggi. Si tratta di un’azione così primitiva da portarci indietro ai tempi oscuri in cui l’uomo credeva che gli oggetti possedessero un potere magico e che l’unico modo per sottrarvisi fosse quello di distruggerli al fine di uccidere il demone che vi albergava.
È la prova che
l’occidente oggi soffre di un pauroso deficit cognitivo che non gli consente
più di stabilire un contatto con la propria storia, bella o brutta che sia.
Occorrerebbe che le istituzioni quantomeno facessero
da argine a questa deriva pericolosa mettendo i puntini sulle i. Invece
assistiamo al comportamento penoso di politici, sindaci, governatori,
scrittori, intellettuali, direttori di case editrici e di musei anche
importanti che si genuflettono alla cancel culture, si scusano (per
che cosa?) e promettono di rimuovere, censurare, nascondere opere e libri non
graditi ai nuovi comitati di salute pubblica.
Il problema pare così
grottesco che meriterebbe di essere derubricato a materia da trattato satirico
se non fosse che chi distrugge statue e censura libri, spesso, prima o poi
finisce per sterminare uomini. E questo non fa ridere per niente.
PAOLO VALESIO
tratto dal Sussidiario.net
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