In ogni epoca, quando l’uomo non ha
cercato il progetto di Dio, è stato vittima di tentazioni culturali che hanno
finito col renderlo schiavo. Negli ultimi secoli, le ideologie che inneggiavano
al culto della nazione, della razza, della classe sociale si sono rivelate vere
e proprie idolatrie; e altrettanto
si può dire del capitalismo selvaggio col suo culto del profitto, da cui sono
conseguite crisi, disuguaglianze e miseria. Oggi si condivide sempre più un sentire comune circa l’inalienabile
dignità di ogni essere umano e la reciproca e interdipendente
responsabilità verso di esso; e ciò a vantaggio della vera civiltà, la civiltà
dell’amore.
D’altro canto, purtroppo, anche il
nostro tempo conosce ombre che oscurano il progetto di Dio. Mi riferisco
soprattutto ad una tragica riduzione
antropologica che ripropone l’antico materialismo edonista, a cui si
aggiunge però un "prometeismo tecnologico". Dal connubio tra una
visione materialistica dell’uomo e il grande sviluppo della tecnologia emerge un’antropologia nel suo fondo atea.
Essa presuppone che l’uomo si riduca a funzioni autonome, la mente al cervello,
la storia umana ad un destino di autorealizzazione. Tutto ciò prescindendo da
Dio, dalla dimensione propriamente spirituale e dall’orizzonte ultraterreno.
Nella prospettiva di un uomo privato
della sua anima e dunque di una relazione personale con il Creatore, ciò che è tecnicamente possibile diventa
moralmente lecito, ogni esperimento risulta accettabile, ogni politica
demografica consentita, ogni manipolazione legittimata. L’insidia più temibile
di questa corrente di pensiero è di fatto l’assolutizzazione dell’uomo: l’uomo
vuole essere ab-solutus, sciolto da ogni legame e da ogni costituzione
naturale. Egli pretende di essere
indipendente e pensa che nella sola affermazione di sé stia la sua felicità.
«L’uomo contesta la propria natura … Esiste ormai solo l’uomo in astratto, che
poi sceglie per sé autonomamente qualcosa come sua natura» (Discorso alla Curia
romana, 21 dicembre 2012). Si tratta di una radicale negazione della
creaturalità e filialità dell’uomo, che finisce in una drammatica solitudine.(…)
La visione cristiana dell’uomo è un grande sì alla dignità della persona
chiamata all’intima comunione con Dio, una comunione filiale, umile e
fiduciosa. L’essere umano non è né individuo a sé stante né elemento anonimo
nella collettività, bensì persona singolare e irripetibile, intrinsecamente
ordinata alla relazione e alla socialità. Perciò la Chiesa ribadisce il suo
grande sì alla dignità e bellezza del matrimonio come espressione di fedele e
feconda alleanza tra uomo e donna, e il no a filosofie come quella del gender
si motiva per il fatto che la
reciprocità tra maschile e femminile è espressione della bellezza della natura
voluta dal creatore.
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