Il cortocircuito mediatico-giudiziario raccontato da Netflix
E il reciproco amore
tra i giornalisti e i magistrati diventa un labirinto senza uscita, una via
senza meta, il solito di quasi tutte le tresche clandestine e adultere, che
hanno il nulla come ultimo scopo: abissi senza sfogo. “La gente adora i mostri.
Quando ne ha la possibilità, vuole vederli”, dice a un certo punto Amanda Knox,
imperscrutabile e inintelligibile, vittima o carnefice, in questo documentario
kolossal americano in onda su Netflix, questo romanzo sospeso tra Kafka e
Dostoevskij, girato con una sapienza narrativa tanto prodigiosa quanto elusiva,
un racconto in cui tutto, dai protagonisti ai comprimari, sembra giocare per
rendere ogni parola, e persino la verità giudiziaria, ammesso che esista,
ancora meglio revocabile, ritrattabile, smentibile, a suscitare dunque altri
ingarbugliamenti, più fiere sospettosità, vaste nubi di nuovo gas che quasi
offuscano lei, Amanda, lei che dà il titolo a questo film stilisticamente
perfetto dei registi Brian McGinn e Rod Blackhurst, girato lungo cinque anni di
lavoro, e che alla fine ha in realtà per protagonisti la giustizia italiana,
machiavellica e grossolana, e un giornalismo corrivo alle più ardue
dissennatezze della morbosità, pronto a maneggiare il fango e la monnezza
proveniente dai corridoi delle procure, a distribuirli a piene mani sulle
colonne dei quotidiani.
Magistrati e
giornalisti, dunque, selvaggiamente avvinghiati come figure del valzer, il
pubblico ministero di Perugia Giuliano Mignini – la probità affettata, le
preghiere inginocchiato in chiesa, le citazioni evangeliche, l’accademismo
letterario, e una vena di narcisistico bigottismo – inscalfibile nel perseguire
sin dai primi giorni successivi all’omicidio di Meredith Kercher, la tesi
dell’assassina sessuomane, a suggerirla ai media, sempre col gelato sorriso di
chi ha dalla sua parte una logica inoppugnabile, se non addirittura la verità.
E poi il cronista del Daily Mail, Nick Pisa, capelli al gel, cravattone, abito
blu iridato, cui non interessa la complessità, ma il gioco a spese della
complessità: si abbeverava di dettagli morbosetti, e talvolta persino fasulli,
provenienti dagli ambienti giudiziari, tutto quel genere di informazioni pseudo
erotiche, utili a rafforzare la tesi dell’accusa, che in quei mesi crescevano,
s’ingigantivano, scavalcavano il senso delle proporzioni: “Certo, diverse
notizie non si sono rivelate vere”, confessa a un certo punto, “ma siamo
giornalisti e riportiamo quel che ci viene detto. Se avessi perso tempo a
verificare avrei dato un vantaggio alla concorrenza”.
Ecco dunque i due
“anti eroi” di questo film, secondo un classico schema da sceneggiatura
cinematografica, ecco Pisa e Mignini, il cronista britannico e il magistrato
italiano, che raccontando l’omicidio e le sue implicazioni, e raccontando
diffusamente anche se stessi (“il mio modello è Sherlock Holmes”, si abbandona
a dire a un certo punto il pm mentre tiene in bocca una pipa spenta), fanno
pian piano emergere uno strapotente cortocircuito, quell’imprendibile intreccio
di vanità, sensazionalismo, pressione pubblica, rapporti contorti tra media e
pm, quel velenoso pasticcio che in Italia ben conosciamo e che il giornalista
anglosassone, con singolare compiacimento racconta così: “Il nome in prima
pagina su uno scoop mondiale è come fare sesso”.
E fu lui, infatti, a
pubblicare sul tabloid per il quale allora lavorava il diario intimo che Amanda
aveva scritto in prigione, in uno stato di fragilità e di prostrazione, quando
a un certo punto, al solo scopo di destabilizzarla psicologicamente e spingerla
a confessare, le fu raccontato dalle autorità italiane – sembra incredibile –
che era ammalata di Aids. Ebbene, in quel diario Amanda si confessava, elencava
nel dettaglio tutte le persone con le quali aveva avuto rapporti sessuali nel
corso della sua giovane vita, le persone dalle quali dunque avrebbe potuto aver
contratto la malattia. Quell’elenco fu pubblicato dal Daily Mail, qualcuno lo
aveva passato al giornalista – “Chi mi ha dato il diario che Amanda scrive in
carcere? Un giornalista non rivela mai le propri fonti” – e una volta reso
pubblico, ebbe l’effetto di confermare e rafforzare in maniera determinante la
tesi della procura (confermata in Appello ma poi smontata in Cassazione),
dunque la tesi di Mignini, che descriveva Amanda come una malata di sesso, una
figura dominante, una mangiatrice di uomini capace di manipolare il suo
ragazzo, e coimputato, Raffele Sollecito.
Scrisse il Guardian
dopo l’assoluzione definitiva: “Gli inquirenti si sono resi colpevoli di
grottesca incompetenza, panico da pressione mediatica e misoginia”. Col
risultato che di tutta la vicenda, alla fine, non si è capito nulla, se non il
fatto che, forse, giustizia non è stata fatta. In carcere resta solo Rudy Guede
per “concorso in omicidio”. Concorso con chi? E anche nel film, Brian McGinn e
Rod Blackhurst lasciano che i dubbi, i retropensieri, le favole torbide formino
un insieme stordente, capace d’incarnare ogni suppurazione e insensatezza d’una
giustizia degradata a spettacolo.
Nessun commento:
Posta un commento