Giampaolo Crepaldi*
Per l'estrema attualità dell'argomento e
per la chiarezza dei princìpi che devono ispirare il giudizio sul tema,
pubblichiamo l'introduzione all'VIII Rapporto sulla Dottrina sociale nel mondo,
curato dall'Osservatorio Internazionale Van Thuan, intitolato «Il caos delle
migrazioni, le migrazioni nel caos». Il Rapporto, edito da Cantagalli, sarà
acquistabile in libreria da metà novembre.
Vorrei indicare alcuni criteri che hanno guidato lo staff
dell’Osservatorio, insieme con le altre Istituzioni internazionali che con esso
collaborano, nella stesura di questo Rapporto. È da tutti riconosciuto,
infatti, che le migrazioni sono un fenomeno stratificato e complesso. Si tratta
di un mare magnum di enormi proporzioni e per inoltrarsi con efficacia in
questa “foresta” occorre avere dei criteri guida, viceversa ci si perde.
Alla base ci sono gli orientamenti della Dottrina sociale della Chiesa. Bisogna riconoscere che sul fenomeno
le encicliche sociali non hanno finora detto molto. Però gli insegnamenti
ordinari degli ultimi Pontefici e soprattutto i Messaggi per la Giornata del
Migrante e del Rifugiato contengono molte preziose indicazioni. anche gli
episcopati europei – della Comece e della CCEE – hanno fatto sentire la propria
voce, insieme agli episcopati nazionali sia dei Paesi di emigrazione sia di
quelli di accoglienza. Ci sono allora alcuni criteri che in modo molto
sintetico voglio qui ricordare in quanto hanno fatto anche da guida al lavoro
di questo Rapporto.
Il primo criterio è che esiste il diritto ad emigrare, a lasciare il proprio Paese sia
quando in esso la vita sia diventata molto difficile o impossibile per la
persecuzione politica o religiosa che mette in pericolo la vita propria e della
famiglia, sia quando esso sia devastato da una guerra, sia anche quando una
situazione di degrado o di povertà endemica o di sottosviluppo impedisca la
sopravvivenza o la condizioni a sofferenze sproporzionate. Ognuno ha il dovere
di amare il proprio Paese, ma nessuno ha l’obbligo di diventarne schiavo.
Espatriare è quindi un diritto che deve essere riconosciuto.
Seccondo criterio. Se esiste quindi un diritto ad emigrare va tenuto anche presente che c’è anche, e forse prima, un diritto a non emigrare. L’emigrazione non deve essere forzata,
costretta o addirittura pianificata. Questo principio è molto importante perché
ad esso sono collegati dei doveri. Il dovere della comunità internazionale di
intervenire sulle cause prima che sulle conseguenze, di affrontare i problemi
che nei Paesi di emigrazione spingono o costringono persone e famiglie ad
andarsene dando il proprio contributo per la loro soluzione, e il dovere
di chi emigra di verificare se non ci siano invece le possibilità per
rimanere ed aiutare il proprio Paese a risolvere le difficoltà. Purtroppo,
invece, le grandi potenze destabilizzano esse stesse alcune aree geopolitiche,
armano e finanziano Stati corrotti e califfati. Molti episcopati africani insistentemente invitano i propri figli a non
andarsene, a non farsi attrarre da proposte illusorie, ma a rimanere per
contribuire al progresso del loro Paese. Del diritto a non emigrare si parla
poco. Ogni situazione è un caso particolare e questi principi non possono
essere generalizzati, però possono contribuite ad illuminare, appunto, la
singola situazione.
Terzo criterio. Un altro principio è che se esiste un diritto ad emigrare non esiste però
un diritto assoluto ad immigrare, ossia ad
entrare in ogni caso in un altro Paese. In
altri termini, i Paesi di destinazione hanno il diritto di governare le
immigrazioni e di stabilire delle regole per l’accesso e l’integrazione
degli immigrati nella loro società. Principi elementari di diritto
umanitario dicono che chi arriva deve essere accolto e accudito, ma i governi
devono anche pensare al bene comune della propria nazione nei cui confronti le
immigrazioni possono diventare una minaccia. Tra i criteri per la difesa del
bene comune nelle politiche immigratorie c’è anche il dovere di salvaguardare la propria identità culturale e garantire
una integrazione effettiva e non un multiculturalismo di semplice vicinanza
senza integrazione.
Il quarto criterio è il realismo cristiano. Da un lato non chiudersi a chiave
davanti a questi fenomeni epocali, dall’altro non cedere alla retorica superficiale. L’accoglienza e
l’integrazione rappresentano problemi molto impegnativi e non è
sufficiente una generica buona volontà per risolverli. Realismo significa non cedere a spiegazioni semplificatorie dei
fenomeni migratori, dando colpe a destra o a sinistra. Significa vedere
come il male e il bene sempre si accompagnino in questi casi: molti migranti
sono senz’altro bisognosi, altri possono emigrare con obiettivi meno nobili. Significa vedere che dietro le migrazioni
non ci sono solo legittimi bisogni, ma anche reti di sfruttamento delle persone
e disegni di destabilizzazione internazionale. L’accoglienza del prossimo
non può essere cieca o solo sentimentale, la speranza di chi emigra va fatta
convivere con la speranza della società che li accoglie. La speranza va quindi
organizzata, e per questo occorre realismo.
Il realismo cristiano, poi, richiede che non si faccia di ogni erba un
fascio. È evidente che l’immigrazione islamica ha alcune
caratteristiche proprie che la rendono particolarmente problematica.
Riconoscerlo è indice di realismo e buon senso e non di discriminazione.
L’islam ha a che fare con le migrazioni in due sensi: da un lato per i
califfati islamici che costringono le popolazioni, specialmente cristiane, a
fuggire per salvare la vita, e dall’altro perché l’integrazione di popolazioni
islamiche in altre nazioni risulta oggettivamente più difficile, per alcune
caratteristiche della religione islamica stessa. Non si tratta di dare colpe all’islam,
ma di prendere atto che nell’islam ci
sono elementi che impediscono di accettare alcuni aspetti fondamentali di altre
società e specialmente di quelle di lontana tradizione cristiana.
L’accoglienza nell’emergenza va data a
tutti. Quando poi invece si transita dall’accoglienza all’integrazione, è
prudente non considerare gli immigrati tutti ugualmente in modo indistinto,
comprese le cultura e religioni di provenienza.
* Presidente dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân
sulla Dottrina sociale della Chiesa, arcivescovo di Trieste e Presidente della
Commissione “Caritas in veritate” del Consiglio delle Conferenze Episcopali
d’Europa (CCEE).
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