“A che serve un poeta in tempi miserabili?”,
si chiedeva già Friedrich Hölderlin, duecento anni fa.
Oggi potrebbe
trovare una risposta davvero sorprendente: può servire a magnificare e a
vendere la pommarola.
In tv si vede spesso infatti lo spot
di un’industria alimentare – che vende appunto passato di pomodoro – dove si
declamano i versi di Pablo
Neruda in “Ode
al pomodoro”, con una stupenda musica per pianoforte in
sottofondo.
Può sembrare dissacrante, ma in
realtà quei versi sono davvero suggestivi e lo spot è molto bello: va dato atto
almeno all’industria del passato di pomodoro di ricordarsi della poesia.
E anche di saperla proporre perché
la poesia è un’arte che concerne la musicalità del linguaggio e va ascoltata
più ancora che letta.
POESIA VINCE IDEOLOGIA
Ben venga dunque l’industria del
pomodoro a ricordarci la grandezza della poesia. Visto che non se lo
ricordano i media, l’editoria e soprattutto la scuola che fa detestare la
poesia ai giovani, non facendone capire la natura.
La poesia infatti non è prosa messa
in una forma bizzarra, ma è come uno spartito musicale: chiunque rimane
incantato ascoltando le “Quattro stagioni” di Vivaldi, ma nessuno (soprattutto
se non sa nemmeno leggere le note) sarebbe sedotto dallo spartito cartaceo con
i segni sul pentagramma.
Ed è proprio questo che fa la
scuola: dà agli studenti dei geroglifici… Cosicché i giovani, che per natura
sono alla ricerca di se stessi e del senso della vita, finiscono per ignorare e
odiare quel prezioso scrigno che parla di loro e delle loro anime.
Non incontrano mai veramente
Leopardi, Dante, Baudelaire, Pessoa, Montale, Rimbaud o Saba e
Tasso. Devono accontentarsi di Jovanotti, Fedez, Fabio Volo, Maria De
Filippi e J-Ax.
Del resto non ci sono più
grandi poeti viventi in Italia. Nemmeno poeti “impegnati”
come – appunto – era Neruda. Li rimpiango, perché la poesia ha questo di
straordinario, che spacca anche le gabbie ideologiche del poeta, perché –
quando c’è un vero poeta – l’intuizione del mistero della vita e la commozione
della bellezza e lo stupore dell’essere e della sua mortalità, prevalgono sulle
ideologie.
Così è stato per Leopardi, ma anche
per intellettuali comunisti come Neruda o Louis Aragon. Che hanno scritto meravigliose
poesie sulla vita, il dolore e l’amore.
Voglio ricordare l’incipit della più
bella di Aragon:
“Nulla appartiene all’uomo. Né la
sua forza
Né la sua debolezza né il suo cuore.
E quando crede
Di aprire le braccia la sua ombra è
quella di una croce
E quando crede di stringere la
felicità la stritola
La sua vita è uno strano e doloroso
divorzio.
Non esistono amori felici…”.
ITALIA SENZA POETI
Dunque il 750° anniversario della
nascita di Dante – colui che ha “inventato” la lingua italiana – vede la
sparizione dei poeti nel “bel paese là dove ‘l sì
suona”, (Inf. XXXIII, 80).
Il fatto è rimasto pressoché
inavvertito, segno che siamo proprio nel “tempo della miseria”. Ricordo un
tempo in cui i poeti parlavano anche al pubblico popolare, com’è giusto che
sia.
Nello sceneggiato dell’”Odissea”,
trasmesso dalla Rai di Bernabei, ogni puntata era introdotta – nientemeno – da
Giuseppe Ungaretti. E lo ricordo ancora, Ungaretti, che recitava in Tv la
sua poesia “Tu ti spezzasti”. E poi in una lunga intervista in bianco e nero
con Pier Paolo Pasolini,
che fece un’analoga intervista a Ezra Pound per la Rai.
Pasolini stesso è stato un poeta
civile dalle intuizioni geniali. Nell’Italia del boom economico e della
fine della millenaria civiltà contadina scriveva:
“Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le
Prealpi
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza
padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui assisto, per privilegio
d’anagrafe
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono
più”.
Uno dopo l’altro sono scomparsi
tutti i nostri poeti. Certo, c’è tanta gente che scrive versi (più di quanti ne
abbia letti).
Magari ce ne potrà essere qualcuno
che si rivelerà di valore, ma oggi i grandi poeti, quelli che esprimono la
coscienza più profonda di un popolo e la più viva intuizione della condizione
umana, non ci sono più.
Dovremmo davvero fondare la “Società dei poeti estinti”,
vagheggiata nel film “L’attimo
fuggente” che rappresentava meravigliosamente l’incanto che un
classe di adolescenti prova nello scoprire la poesia, grazie a uno strano e
suggestivo professore.
Quei ragazzi scoprono infatti che i
“poeti estinti” nei loro versi sono più vivi dei viventi (o meglio: di noi
“morenti”).
I MIEI POETI
All’inizio del mio lavoro mi è
capitato di frequentare e intervistare – per mia fortuna – diversi poeti.
Ho studiato all’Università con un
professore d’eccezione e poeta come Franco
Fortini, sono stato amico di Mario Luzi. E poi Carlo Betocchi, Giovanni Testori, Giorgio Caproni, Piero Bigongiari.
Ricordo, più di trent’anni fa, il
Nobel Czeslaw Milosz
e Josif Brodskij
a un congresso dei poeti tenutosi a Firenze.
Proprio Milosz, lituano-polacco,
vissuto esule in America negli anni in cui il comunismo era stato imposto
all’Europa dell’est, aveva vivissimo il senso della missione civile e
spirituale dei poeti: “Che
cos’è la poesia, che non salva/ Né le nazioni né gli uomini…/ La complicità
alle menzogne ufficiali/ Una canzone di ubriachi/…Un romanzetto per signorine”.
Quando il sindacato “Solidarnosc”, nella
Polonia di Giovanni Paolo II, assestò il primo colpo al sistema comunista, nel
1980, Lech Walesa
volle e ottenne che, davanti ai cantieri navali di Danzica, fosse eretto un
monumento in memoria degli operai uccisi dalla polizia del regime comunista
durante la rivolta del 1970.
E’ composto da tre altissime croci che
si stagliano nel cielo, sotto le quali sono incisi proprio i versi di Milosz:
“Tu che hai ferito l’uomo semplice
sghignazzando sulla sua sventura
E confondendo il bene e il male
Insieme a quei buffoni che intorno a
te si assiepano,
Anche se tutti ti si prostrassero
Celebrando la tua saggezza e il tuo
valore,
Medaglie d’oro coniando in tuo
onore,
Felici perché sono, ancora un
giorno, salvi,
Non sentirti al sicuro. Il poeta non
scorda.
Uccidilo: ne nascerà uno nuovo.
Saranno scritti gli atti e le
parole.
Meglio per te l’inverno, al sorgere
del sole,
Un ramo curvo sotto il peso e la
corda”.
Sventurate dunque le generazioni che
non hanno poeti. Che ricordano. Anche noi, europei dei paesi democratici. Milosz ci vedeva “sottomessi ad ogni moda
in vigore”, “ad ogni menzogna/ e pensare che erano liberi!”.
.
Antonio Socci
Da “Libero”, 7 ottobre 2016
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