di Donald J. Trump*
20-10-2016 LANUOVABUSSOLA
La sfida elettorale
che l’8 novembre si concluderà con l’elezione del 45° presidente degli Stati
Uniti è anche una battaglia fra due visioni del mondo contrapposte e
inconciliabili. Da un lato Hillary Clinton, candidata del Partito Democratico,
è una lucida sostenitrice dell’aborto; non a caso la Planned Parenthood, il più
grande abortificio del mondo, ne appoggia appassionatamente la candidatura.
Dall’altro Donald J. Trump, candidato del Partito Repubblicano, è un uomo molto
chiacchierato e non certo famoso per essere un idealista; nondimeno è capace d’impegni politici precisi a favore del diritto alla vita.
Come questo suo breve ma inciso articolo pubblicato sul quotidiano Washington Examiner il 23 gennaio scorso con il titolo My vision for a culture of life e letteralmente ignorato dalla stampa. Marco Respinti Segue il testo integrale tradotto:
Consentitemi di essere chiaro. Io sono per il diritto alla vita. Ho questa posizione pur ammettendo
eccezioni in casi di stupro, incesto o quando è a rischio la vita della madre.
Non sempre l’ho pensata così, ma una esperienza personale assai significativa
mi ha portato a riconsiderare il prezioso dono della vita. L’aneddoto è ben
documentato e quindi non lo racconterò di nuovo ora (1). Tuttavia, nello spazio
che mi rimane, voglio esprimere ciò che provo nei confronti della vita e della
cultura della vita proprio mentre cade il 43° anniversario del caso Roe v. Wade
(2).
Io sono un costruttore. Per costruire bisogna seguire un metodo. Ci si serve di molte arti di cui
l’ingegneria è la più importante. Le regole per assemblare le strutture sono
molto rigide proprio come lo sono le regole della fisica. Le regole hanno
superato la prova del tempo e sono diventate il modo per assembleare le strutture
che perdura e che produce bellezza. Gli Stati Uniti, quando sono al loro
meglio, seguono un insieme di regole che funzionano sin dall’epoca della
fondazione. Una di queste regole è che noi, come statunitensi, onoriamo la vita
e questo abbiamo fatto sin da quando i nostri fondatori hanno fatto della vita
il primo, e il più importante, dei nostri diritti «inalienabili» (3).
Con il tempo la cultura della vita di questo Paese ha preso a scivolare verso una cultura della morte. La
prova forse più decisiva su cui si regge quest’affermazione è che dalla
sentenza pronunciata dalla Corte Suprema nel caso Roe v. Wade 43 anni fa a oggi
più di 50 milioni di statunitensi non hanno avuto la possibilità di godere
delle opportunità che il nostro Paese offre. Non hanno avuto la possibilità di
diventare dottori, musicisti, agricoltori, insegnanti, mariti, padri, figli e
figlie. Non hanno avuto la possibilità di arricchire la cultura questa nazione
o di contribuire con i propri talenti, le proprie esistenze, i propri affetti e
le proprie passioni al tessuto di questo Paese. Mancano e ci mancano.
Nel 1973 la Corte Suprema fondò quella sentenza immaginando diritti e libertà che
nella Costituzione non ci sono. Se prendessimo per vera la parola di quel
tribunale, ovvero che l’aborto sia una questione di privacy,
dovremmo logicamente concludere che è il denaro privato quello che deve
finanziare questa scelta e non il mezzo miliardo di dollari erogato ogni anno
dal Congresso federale ai procuratori di aborti. Il finanziamento pubblico dei
procuratori di aborti è quanto meno un insulto alla coscienza delle persone e
al meglio un affronto al buon governo.
Inoltre, come se usare il denaro dei contribuenti per agevolare lo scivolamento
verso la cultura della morte non fosse già abbastanza, la sentenza del 1973 è
diventata una pietra miliare nel dimostrare il disprezzo totale che quel
tribunale riserva al federalismo e al Decimo Emendamento (4). Il caso Roe v.
Wade ha infatti dato alla Corte Suprema una scusa per smantellare le decisioni
prese dalle assemblee legislative dei diversi Stati dell’Unione e il voto
espresso dalla gente. Un modo di fare, questo, che da allora la Corte ha
ripetuto mille volte. La sentenza nel caso Roe v. Wade è quindi diventata solo
l’ennesimo esempio dello scollamento tra il popolo e il suo governo.
Siamo nel pieno di un ciclo politico che porterà all’elezione di un nuovo presidente federale e fra pochi
giorni si voterà. I cittadini di questo Paese avranno la possibilità di votare
per il candidato che rappresenta la loro visione del mondo. Spero che
sceglieranno il costruttore, l’uomo che ha la capacità d’immaginare la
grandezza di questa nazione. Il prossimo presidente dovrà seguire i princìpi
che meglio funzionano e che rafforzano la venerazione che gli statunitensi
hanno nei confronti della vita. La cultura della vita è troppo importante
perché la si lasci eclissare per convenienza o correttezza politica. È
preservando la cultura della vita che Faremo Grandi Ancora gli Stati Uniti.
*candidato del Partito Repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti.
Traduzione e cura di Marco Respinti
Note del traduttore
(1) Il 6 agosto 2015, durante il primo
dibattito pubblico tra i candidati del Partito Repubblicano
nelle primarie, rispondendo a una domanda relativa alle sue precedenti
posizioni filoabortiste e sul cambiamento poi intercorso, Trump ha raccontato:
«E quel che è successo è che anni fa dei miei amici aspettavano un bambino e
che quel bambino avrebbe dovuto essere abortito. E invece non è stato abortito.
E oggi quel bambino è una superstar assoluta, un bambino grande, davvero
grande. E io questo l’ho visto. E ho visto altre cose così. E sono molto, molto
orgoglioso di dire che io sono per il diritto alla vita».
(2) Il 22 gennaio 1973 la Corte Suprema
federale concluse il caso Roe v. Wade con una sentenza che cancellò le
precedenti norme a difesa della vita umana nascente approvate e vigenti nei
singoli Stati dell’Unione, legalizzando così l’aborto in tutto il Paese. Il
mondo pro-life considera la sentenza un abuso giacché la Corte Suprema, come
sancisce la Costituzione federale, non ha alcun potere di legiferare, ma solo
quello di vigilare sulla costituzionalità delle leggi e di esprimersi negli
ambiti strettamente costituzionali dei casi che è chiamata a giudicare. Del
resto, il caso Roe v. Wade si fonda su una grande menzogna: una ragazza
dall’adolescenza rovinata, lesbica, coperta da anonimato, “Jane Roe”, alla terza
gravidanza indesiderata, s’inventò di essere rimasta incinta a causa di uno
stupro. Supportata da alcune avvocatesse fortemente politicizzate, “Jane” adì
il Tribunale distrettuale del Texas e dopo tre anni giunse alla Corte Suprema.
Intanto quel suo terzogenito era nato, era stato dato come gli altri due in
adozione e “Jane” cambiò la versione dei fatti invocando la necessità
dell’aborto a causa dello stato di povertà e di depressione in cui viveva. Anni
dopo “Jane” rivelò di essere Norma Leah Nelson McCorvey: accadde quando si
convertì prima al protestantesimo e poi al cattolicesimo con don Frank A.
Pavone, che oggi è uno dei consiglieri cattolici di Trump.
(3) Sono le parole del preambolo della
Dichiarazione d’indipendenza del 1776: «Noi asseriamo che queste verità sono
per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono
dotati dal loro Creatore di determinati diritti inalienabili, che tra questi vi
sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità».
(4) Il Decimo Emendamento alla Costituzione
federale degli Stati Uniti, l’ultimo di quelli approvati nel 1791 e noti come
Bill of Rights, sancisce che i poteri non delegati dalla Costituzione al
governo federale o da essa non vietati agli Stati sono riservati agli Stati o
al popolo.
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