Premettiamo
che non siamo animati da rancore, un sentimento faticoso da coltivarsi. Chi ha
da fare non ha tempo per odiare alcuno, al massimo dice una battuta scherzosa
sulle persone che non stima. È esattamente il nostro intento mentre scriviamo
queste note. Dario Fo è morto a novanta anni e oltre. Succede a tutti di
concludere la propria vita, succede a pochi di arrivare a una età così
avanzata. È un privilegio raro tirare le cuoia quando si è ancora lucidi.
Il Nobel
l' ha avuto. Beato lui.
Ieri i giornali gli hanno tributato ogni
onore possibile e immaginabile. Si sono lasciati andare a elogi esagerati e si
sono ben guardati dal muovere critiche al guitto, la cui esistenza è stata
ricca di incidenti.
Non
importa che abbiano minimizzato la sua giovanile adesione alla Repubblica
sociale di Salò. In fondo anche i nostri padri, almeno il mio, sono stati
fascisti fino alla morte del Duce e anche dopo. Giorgio Albertazzi, come Fo,
indossò orgogliosamente la camicia nera. Ma non ne fece mai mistero, ne parlava
con sereno distacco senza rinnegare il suo tumultuoso passato. Dario invece
sorvolava. Guai a ricordargli ciò che era stato. Forse se ne vergognava. Gli
uomini non sono tutti uguali.
E anche Mario Calabresi non è molto uguale, sia
pure per ragioni diverse.
Il direttore di Repubblica ha lasciato che
il quotidiano da lui diretto sbrodolasse sulla presunta grandezza del Nobel, al
quale ha infatti dedicato pagine e pagine non di inchiostro ma di saliva,
trasformandolo in una sorta di eroe della patria culturale.
Non ci
sarebbe problema, se non fosse che Calabresi non è un orfano qualunque, ma
figlio del commissario Luigi Calabresi assassinato da Lotta Continua molti anni
orsono, dopo che Dario Fo ne aveva sollecitato l' eliminazione in un comunicato
storico sottoscritto da una folla di intellettuali, veri o presunti, ovviamente
tutti filo-comunisti.
Ora si
sa che il tempo è medico e che la memoria è corta, per cui capisco che
Calabresi abbia glissato sui misfatti di Fo e gli abbia riservato comunque
smisurati peana sul proprio foglio. Ma c' è un limite oltre il quale non doveva
andare.
Almeno
due righe per ricordare il papà ammazzato su istigazione anche del Nobel egli
avrebbe avuto l' obbligo morale di scriverle. Invece non lo ha fatto. D'
accordo che la carriera è fondamentale, ma lo è anche la dignità. Quella
dignità che Adriano Sofri, condannato per il delitto del commissario, ha
dimostrato di possedere dimettendosi da Repubblica il giorno stesso in cui l'
orfano ne assunse la guida. Grande Sofri, piccolo Calabresi.
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